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Lo Stato membro ospitante può legittimamente decidere di imporre limitazioni e divieti all’esercizio della professione forense in costanza di rapporto di lavoro pubblico, ma a due condizioni: le restrizioni non devono eccedere in alcun modo quanto è strettamente necessario per raggiungere l’obiettivo di evitare il conflitto di interesse e inoltre devono applicarsi indistintamente a tutti gli avvocati iscritti in quello Stato.

La sentenza della Corte di Giustizia Europea pubblicata il 2 dicembre scorso è chiara: gli artt. 3, n. 1, lett. g), CE, 4 CE, 10 CE, 81 CE e 98 CE non ostano ad una normativa nazionale che neghi ai dipendenti pubblici impiegati in una relazione di lavoro a tempo parziale l’esercizio della professione di avvocato, anche qualora siano in possesso dell’apposita abilitazione, disponendo la loro cancellazione dall’albo degli Avvocati.

E inoltre l’art. 8 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 febbraio 1998, 98/5/CE, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica, deve essere interpretato nel senso che lo Stato membro ospitante può imporre agli avvocati ivi iscritti che siano impiegati – vuoi a tempo pieno vuoi a tempo parziale – presso un altro avvocato, un’associazione o società di avvocati oppure un’impresa pubblica o privata, restrizioni all’esercizio concomitante della professione forense e di detto impiego, sempreché tali restrizioni non eccedano quanto necessario per conseguire l’obiettivo di prevenzione dei conflitti di interesse e si applichino a tutti gli avvocati iscritti in detto Stato membro.

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