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Licenziamento

La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con sentenza n. 21103 depositata il 24 luglio 2025, ha confermato il licenziamento per giusta causa di una dipendente di un ente, ritenendo legittima la scelta dell’ente di interrompere immediatamente il rapporto dopo che la lavoratrice aveva rivolto un epiteto volgare al proprio superiore, alla presenza di un’altra collega, rifiutando contestualmente di eseguire un ordine.

La vicenda

L’episodio risale al novembre 2018. Alla dipendente era stato contestato di aver usato un termine ingiurioso nei confronti del dirigente, in un contesto di dissenso per una disposizione ricevuta. Pochi giorni dopo era arrivata la lettera di licenziamento per giusta causa.

La lavoratrice aveva impugnato il provvedimento davanti al Tribunale di Catania, che nel 2020 le aveva dato ragione, giudicando sproporzionata la sanzione e disponendo la reintegra e il pagamento di dodici mensilità di indennità. Una decisione confermata anche in sede di opposizione.

La situazione è cambiata in appello. Nel 2023 la Corte d’Appello di Catania ha ribaltato completamente l’esito, riconoscendo che la condotta integrava sia l’ipotesi contrattuale di “litigi di particolare gravità, ingiurie, risse sul luogo di lavoro” sia quella di “grave insubordinazione” previste dal CCNL di settore. Per i giudici di secondo grado, l’episodio aveva carattere di “notevole gravità”, aggravato dal fatto che fosse avvenuto in presenza di terzi e accompagnato dal rifiuto di adempiere. È stato inoltre valorizzato un precedente disciplinare del 2016, considerato indice di una certa “inclinazione all’uso di toni offensivi”.

La donna ha proposto ricorso in Cassazione.

La decisione della Suprema Corte

La Cassazione ha rigettato tutti i motivi, spiegando che gran parte delle censure miravano a una nuova valutazione dei fatti, attività preclusa in sede di legittimità.

In particolare, i giudici hanno chiarito che:

  • Anche un singolo episodio può costituire giusta causa se dotato di intrinseca gravità.
  • La condotta accertata non era un semplice alterco, ma un atto di insubordinazione aggravato dall’offesa diretta al superiore, dal rifiuto di obbedire e dalla presenza di testimoni.
  • La longevità del rapporto di lavoro e le condizioni personali non erano tali da giustificare o attenuare il comportamento.
  • Pur non potendo la recidiva disciplinare fondarsi automaticamente su fatti remoti, il precedente del 2016 poteva essere considerato per valutare la personalità e l’attitudine alla prosecuzione del rapporto.

Infine, la Corte ha confermato la condanna della lavoratrice al pagamento delle spese processuali, pari a 4.000 euro oltre accessori, e ha disposto il versamento dell’ulteriore contributo unificato.

Il principio affermato

La sentenza ribadisce che l’uso di espressioni gravemente offensive verso un superiore, specialmente in contesti formali e davanti a colleghi, può costituire di per sé giusta causa di licenziamento, senza necessità di ulteriori episodi, poiché mina irrimediabilmente il rapporto fiduciario e l’assetto gerarchico dell’organizzazione.

 

 

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