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La sezione lavoro della Corte di Cassazione, con l’ordinanza interlocutoria n. 2112 del 28 gennaio 2011, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32, commi 5 e 6, della legge 4 novembre 2010, n. 183, recante il c.d. Collegato lavoro.

Ricordiamo che il comma 5 prevede che, nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604. Il successivo comma 6 stabilisce poi che in presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà.

Secondo la Corte, la norma - che viene ritenuta applicabile a tutti i giudizi pendenti, ivi inclusi quelli in grado cassazione - reca, per i casi di apposizione illegittima di termine al contratto di lavoro, la previsione del pagamento di un'indennità onnicomprensiva, che esclude la condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni dalla data di scadenza del termine illegittimamente apposto; così intesa, tuttavia, la previsione non tutela adeguatamente il diritto al lavoro (art. 3 e 4), non reca strumenti che evitino che il datore prolunghi il giudizio e possa sottrarsi all’esecuzione della sentenza (art. 24 e 11 Cost.), contrasta con l'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, realizzando un'indebita interferenza del legislatore nei processi in corso (art.117 Cost).

La Cassazione quindi ha ritenuto in contrasto con la Costituzione l’indennità risarcitoria prevista dall’art..32 commi 5 e 6 della legge n.183/2010.

Infatti, secondo i Giudici, “il danno sopportato dal prestatore di lavoro a causa dell’illegittima apposizione del termine al contratto è pari almeno alle retribuzioni perdute dal momento dell’inutile offerta delle proprie prestazioni fino al momento dell’effettiva riammissione in servizio. Fino a questo momento, spesso futuro e incerto durante lo svolgimento del processo e non certo neppure quando viene emessa la sentenza di condanna, il danno aumenta col decorso del tempo ed appare di dimensioni anch’esse non esattamente prevedibili”.

Inoltre, un’indennità evidentemente non proporzionata al danno, potrebbe indurre il datore di lavoro a persistere nell’inadempimento, vanificando “il diritto del cittadino al lavoro (art. 4 Cost.) e nuoce all’effettività della tutela giurisdizionale, con danno che aumenta con la durata del processo, in contrasto con il principio affermato da qualsiasi secolare dottrina processualista, oggi espresso dagli artt. 24 e 111, secondo comma, cost., e che esige l’esatta, per quanto materialmente possibile, corrispondenza tra la perdita conseguita alla lesione del diritto soggettivo ed il rimedio ottenibile in sede giudiziale“.

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