L’art. 32 del D.Lgs. 151/2001 (T.U. a tutela della maternità e paternità) dispone che per ogni bambino, nei suoi primi otto anni di vita, ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro. Tale diritto compete: alla madre lavoratrice, trascorso il periodo di congedo di maternità, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi (comma 1, lett. a); al padre lavoratore, dalla nascita del figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi (comma 1, lett. b).
Il congedo parentale spetta al genitore richiedente anche qualora l’altro genitore non ne abbia diritto (comma 4); ai fini dell’esercizio del diritto il genitore è tenuto, salvi i casi di oggettiva impossibilità, a preavvisare il datore di lavoro secondo modalità e criteri definiti dai contratti collettivi, e comunque con un periodo di preavviso non inferiore a quindici giorni (comma 3).
Per i periodi di congedo parentale alle lavoratrici e ai lavoratori è riconosciuta un’indennità, calcolata in misura percentuale sulla retribuzione secondo le modalità previste per il congedo di maternità (art. 34, commi 1 e 4).
La norma, quindi, non impedisce in alcun modo alla lavoratrice madre o al lavoratore padre di frequentare corsi di specializzazione o aggiornamento mentre fruisce dei giorni di congedo parentale. Questo perché durante il periodo di congedo parentale il dipendente non è soggetto ad alcun obbligo di reperibilità, così come non vige alcun divieto al lavoro, come invece si verifica nel caso del congedo di maternità (ex astensione facoltativa).
No ad altra attività lavorativa
La giurisprudenza (vedi ad esempio Cassazione, sez. lavoro, sentenza n. 16207/2008) ha più volte affermato che si configura un abuso per sviamento dalla funzione propria del diritto qualora si accerti che il periodo di congedo viene utilizzato dalla madre o dal padre per svolgere una diversa attività lavorativa, non essendo rilevante il fatto che lo svolgimento di tale attività contribuisca ad una migliore organizzazione della famiglia.
In sostanza tale diritto viene esercitato, con il solo onere del preavviso, sia nei confronti del datore di lavoro – nell’ambito del contratto di lavoro subordinato, con la conseguente sospensione della prestazione del dipendente – sia nei confronti dell’ente previdenziale.
La configurazione di tale diritto non esclude la verifica delle modalità del suo esercizio, per mezzo di accertamenti probatori consentiti dall’ordinamento, ai fini della qualificazione del comportamento del lavoratore negli ambiti suddetti (quello del rapporto negoziale e quello del rapporto assistenziale).
Anche l’Inps, con la circolare n. 62 del 29/04/2010 ha dedicato un apposito paragrafo al tema.
Sulla questione è stato interpellato il Ministero del Lavoro, Salute e Politiche Sociali che, nel rendere il proprio parere, ha sottolineato che il congedo parentale risponde alla precipua funzione di assicurare al genitore lavoratore un periodo di assenza dal lavoro finalizzato alla cura del bambino, e non può, quindi, essere utilizzato per intraprendere una nuova attività lavorativa che, ove consentita, finirebbe col sottrarre il lavoratore dalla specifica responsabilità familiare verso la quale il beneficio è orientato.
Quindi, il lavoratore dipendente che, durante l’assenza dal lavoro per congedo parentale, intraprenda un’altra attività lavorativa (dipendente, parasubordinata o autonoma) non ha diritto all’indennità a titolo di congedo parentale ed, eventualmente, è tenuto a rimborsare all’Inps l’indennità indebitamente percepita (art. 22 del D.P.R. 1026/1976).
L’incompatibilità appena evidenziata si configura anche nei casi in cui il lavoratore dipendente intraprenda una nuova attività lavorativa durante periodi di congedo parentale non indennizzabili per superamento dei limiti temporali e reddituali previsti dalla legge (artt. 32 e 34 del D.Lgs. 151/2001); in tale ipotesi, infatti, al lavoratore non può essere riconosciuta la copertura figurativa per i periodi di congedo impropriamente utilizzati.
Ovviamente, il tutto si riferisce a quei periodi di congedo parentale relativamente ai quali risulti verificato il contemporaneo svolgimento della nuova attività lavorativa intrapresa.
Tale ipotesi – precisa l’Inps – è differente rispetto all’ipotesi in cui il lavoratore sia titolare di più rapporti di lavoro a tempo parziale (orizzontale), ed eserciti il diritto al congedo parentale relativamente ad uno dei rapporti di lavoro, proseguendo l’attività nell’altro o negli altri rapporti. In tale caso, infatti, il lavoratore non si avvale dell’assenza per congedo parentale per intraprendere una nuova attività lavorativa, ma si limita a proseguire l’attività o le attività già in essere al momento della richiesta di congedo.
Partecipazione a corsi di formazione
Con parere del 5/12/2011 l’Aran ha risposto al seguente quesito: “La lavoratrice in congedo di maternità può partecipare ai corsi di formazione organizzati dall’ente?”.
Per l’Agenzia, l’assoluto divieto di adibire al lavoro le donne nei periodi indicati negli artt. 16 e 17 del D.Lgs.151/2001 (la cui violazione è punita con la sanzione penale dell’arresto fino a sei mesi – art. 18 dello stesso decreto) riguarda anche la partecipazione ai corsi di formazione organizzati dall’ente e validi per la progressione orizzontale e verticale, trattandosi di attività del tutto assimilabili al servizio prestato.
Inoltre non sono trascurabili i profili di responsabilità che potrebbero sorgere nei confronti del datore di lavoro pubblico nel caso di eventi che si dovessero determinare a danno della lavoratrice durante la frequenza di tali corsi. Questo discorso vale a maggior ragione nel caso di astensione anticipata per gravi complicanze della gestazione: a tale proposito la giurisprudenza è concorde nel sostenere che, per effetto dell’obbligo di buona fede e correttezza, la lavoratrice in tale situazione debba astenersi dal porre in essere comportamenti tali da contribuire ad aggravare o a prolungare le complicanze della gestazione.
Anno di prova e discussione finale
Secondo il telex n. 357/1984 dell’allora MPI «La lavoratrice madre in congedo di maternità che abbia compiuto i 180 giorni di servizio nell’anno scolastico, può sostenere la discussione della relazione finale col Comitato per la valutazione del servizio anche in periodo di congedo di maternità, previa autorizzazione del suo medico di fiducia, al fine di veder definito il superamento dell’anno di formazione con la relazione del Capo d’istituto».
In questo caso, ovviamente, si parla solo della discussione finale, non della frequenza a nessun corso, così come ci si riferisce esplicitamente al congedo di maternità e non all’astensione obbligatoria per gravi complicanze della gestazione, ipotesi che si può ritenere differente per i medesimi ragionamenti di cui sopra.
Per quanto riguarda, invece, la possibilità di esonero della docente dalla formazione durante il periodo di prova, la circolare ministeriale n. 267/1991 (tuttora valida) così dispone: «Per quanto riguarda la partecipazione alle attività seminariali previste dall’anno di formazione [...] si precisa che i docenti medesimi, ai fini del superamento del periodo di prova, devono essere ammessi agli incontri organizzati per la classe di concorso per cui è stata conseguita la nomina e nella provincia in cui essi prestano servizio.
I coordinatori dei predetti incontri rilasceranno il previsto attestato di partecipazione al Comitato di valutazione della scuola di servizio degli interessati [...].
Si conferma, altresì, la possibilità di discutere la relazione da parte di quei docenti che, pur avendo prestato il prescritto servizio minimo di 180 giorni, non abbiano potuto, per giustificati e documentati motivi, da segnalare al coordinatore del corso e da comprovarsi nella relazione finale relativa al corso medesimo, partecipare alle obbligatorie attività seminariali, ovvero le abbiano potute frequentare solo parzialmente.
Rientra in tale ipotesi, a titolo esemplificativo, la fattispecie riguardante l’insegnante che, pur avendo prestato il servizio minimo di 180 giorni, sia impedita in tutto o in parte alla frequenza delle attività da astensione obbligatoria ex legge n. 1204/1971 (da documentare con attestazione di organi sanitari e, ove del caso, dai competenti ispettorati del lavoro).
Nel caso inverso (docente che abbia frequentato regolarmente le attività seminariali e che, tuttavia, per legittimo impedimento non abbia compiuto i 180 giorni di servizio minimo richiesto) la proroga della prova, [...], all’anno scolastico successivo non esigerà la ripetizione della partecipazione alle attività seminariali».
Frequenza dei Tfa
La circolare ministeriale prot. n. 549 del 28/02/2013 precisa che «in caso di maternità o di particolari terapie che inibiscano la frequenza del TFA, si impone il rinvio dei medesimi percorsi al successivo anno accademico, senza ovviamente che i corsisti debbano risostenere le prove di selezione o provvedere al pagamento della quota di iscrizione, se già versata».
Dal punto di vista effettivo si tratta di una “non soluzione”, visto che dopo il primo ciclo di Tfa non è stato finora previsto uno successivo (anche se il Miur, con comunicato del 18/01/2014, ha annunciato l’avvio entro febbraio del II ciclo dei Tfa).
PAS e corsi di specializzazione per il sostegno
Analogo discorso vale per i Percorsi Abilitanti Speciali e per i Tfa su sostegno, situazioni queste su cui finora il Miur non si è ancora espresso e che sta generando confusione su confusione. Una soluzione analoga a quella dei Tfa ordinari potrebbe essere prevista per i Pas, nel caso di attivazione articolata su più anni accademici, ma in tutti gli altri casi?