Sinergie di Scuola

In ambito scolastico, il termine “continuità” assume attributi che, a volte, possono essere erroneamente usati come sinonimi.

Il primo concetto che viene in mente è quello di continuità didattica, che indica la prosecuzione pluriennale (o, in altri termini, costante nel tempo) del servizio prestato dai docenti in un plesso o in un Istituto.

Questa condizione – favorevole sia per gli alunni che per l’organizzazione scolastica – viene ritenuta un elemento di qualificazione professionale e, come tale, idonea a produrre un riconoscimento spendibile in vari ambiti.

La continuità di servizio, infatti, ha un peso nel momento in cui un insegnante si accinge a presentare una domanda di mobilità volontaria, così come in occasione della compilazione delle graduatorie interne di Istituto per l’individuazione dei docenti soprannumerari.

Tale requisito, inoltre, viene fatto rientrare tra i criteri generali per l’assegnazione dei docenti alle classi (deliberati dal Consiglio d’Istituto) che il Dirigente scolastico è tenuto ad applicare.

Recentemente, il Decreto-Legge 36 del 30/04/2022, convertito nella Legge 79 del 29/06/2022, ha disposto la valorizzazione del personale docente che garantisca la continuità didattica ai propri alunni e studenti, prevedendo l’impiego delle risorse a tale fine attribuite e iscritte nel Fondo per il miglioramento dell’offerta formativa.

Altro, invece, è il significato di continuità educativa, che indica il processo di integrazione scolastica tra i diversi gradi d’istruzione, garantito e disciplinato da disposizioni legislative e amministrative.

Nel presente contributo la riflessione sarà riferita al periodo di scolarizzazione che va dai 3 ai 14 anni. Nella normativa ministeriale, infatti, il riconoscimento della necessità di tale processo ha radici in tempi ormai lontani, quando la scuola dell’infanzia si chiamava “materna”, la primaria “elementare”, la secondaria “media” e non si parlava ancora di Istituti Comprensivi.

La C.M. 339 del 16/11/1992, che trasmetteva il decreto ministeriale applicativo dell’art. 2 della Legge 148 del 5/06/1990, richiamava anche alcuni pregressi documenti ministeriali in materia: «L’istanza della continuità educativa, già affermata nei programmi della scuola media (D.M. 9/02/1979, Premessa generale, I parte, 3 d.), nei programmi della scuola elementare (D.P.R. 104 del 12/02/1985, Premessa generale, I parte) e negli orientamenti per la scuola materna (D.M. 3/06/1991, II parte, 4), è stata recepita dalla Legge 148 del 5/06/1990, di riforma della scuola elementare, come normativa che investe l’intero sistema educativo di base. Tale legge afferma, all’art. 1 nelle finalità generali, che la scuola elementare, anche mediante forme di raccordo pedagogico, curricolare e organizzativo con la scuola materna e con la scuola media, contribuisce a realizzare la continuità del processo educativo».

La continuità espressa dai documenti

Non deve tuttavia ritenersi scontato che le istanze veicolate dalla normativa emanata in quel periodo abbiano trovato piena applicazione, pur se tutte (o quasi) le rinnovate Istituzioni scolastiche hanno predisposto una serie di documenti (consultabili anche da parte dell’utenza) che esplicitano le iniziative di continuità educativa realizzate.

In genere, il limite più significativo di queste iniziative è lo stesso che caratterizza le attività di orientamento: anche la continuità, infatti, dovrebbe rappresentare un processo permanente e non essere realizzata solo in occasioni specifiche come il passaggio da una scuola all’altra.

Si dovrebbe quindi lavorare per garantire agli alunni, anche nel cambiamento di ambiente scolastico, la prosecuzione di un processo evolutivo unitario, basato sulla stabilità dei metodi educativi.

In altre parole, tale processo dovrebbe basarsi su una logica di sviluppo in cui l’obiettivo raggiunto sia premessa e base per quello successivo, accompagnando la crescita della persona nei suoi diversi contesti di vita e di formazione.

A questo proposito, la C.M. 339/1992 raccomandava ai Capi d’Istituto (al tempo distinti tra “direttori didattici” e “presidi”) di creare dei gruppi di lavoro unitario per la continuità, formati da docenti dei diversi ordini di scuola.

La norma in questione, anche se dichiarava opportuna una preliminare ricognizione delle scuole presenti sul medesimo territorio, prevedeva che il percorso comune iniziasse al termine delle iscrizioni, dopo l’individuazione delle scuole effettivamente interessate ad un comune progetto di raccordo.

Una volta formati, i gruppi erano chiamati ad incontrarsi durante l’anno scolastico per formulare proposte, realizzare iniziative e valutarne i risultati.

A distanza di molti anni si rileva che nella maggior parte degli Istituti Comprensivi viene costituita una Commissione Continuità in cui sono presenti insegnanti dei diversi ordini di scuola. Tuttavia, nonostante la facilitazione derivante dalla compresenza di più ordini di scuola nel medesimo Istituto, non è scontato che in tutte le realtà scolastiche si svolga effettivamente un lavoro congiunto per promuovere un’autentica continuità educativa attraverso l’elaborazione di un Piano di intervento.

Tale Piano, che il Collegio docenti è stato chiamato a deliberare dal decreto introdotto dalla citata circolare, dovrebbe svilupparsi in ambito pedagogico, curricolare e organizzativo.

Piano pedagogico: la condivisione di princìpi

Il primo ambito condiziona in modo determinante gli altri due: solo se esiste la continuità pedagogica, infatti, l’intero percorso non sarà condotto come ottemperanza formale né consisterà in una mera compilazione documentale.

I docenti dei diversi ordini di scuola dovrebbero pertanto armonizzare costantemente i princìpi pedagogici su cui ispirare l’agire educativo, confrontandosi ogni anno in considerazione delle rinnovate presenze e delle esperienze maturate in precedenza.

Questa azione dovrebbe essere favorita anche da esperienze comuni di formazione in servizio (di cui devono essere esplicitati i criteri di attuazione in ciascun Piano di intervento) che dovrebbero vertere su tematiche attinenti alle competenze professionali (vedi art. 2, comma 1 della C.M. 339/1992).

Tornando ai suddetti princìpi pedagogici, ne indichiamo alcuni, precisando che non andrebbero enunciati solo “sulla carta” per poi essere disattesi nell’azione concreta (seguendo, nella pratica, tutti i “non” correlati):

  • l’unità e la centralità della persona nelle varie fasi evolutive (cioè del discente, che non è una somma di saperi disciplinari e distinti);
  • la formazione integrale della personalità, che prevede anche la valorizzazione del pensiero divergente (come ad esempio la creatività) e non solo l’esibizione delle conoscenze acquisite;
  • la necessità di promozione della dimensione trasversale (con particolare riferimento alla componente socio-affettiva, relazionale, comunicativa), non riservando attenzione solo agli aspetti cognitivi;
  • il diritto all’educazione (che sta alla base dell’inclusione ed è enunciato dall’art. 3 della Costituzione, che impone di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale»), e non indirizzare l’azione didattico educativa soprattutto verso coloro che possiedono manifeste abilità, più o meno significative.

La consapevole condivisione di tali principi conduce a voler strutturare le attività scolastiche sia come ambienti educativi che come ambienti di apprendimento, attribuendo ai minori il ruolo di “costruttori delle proprie competenze”.

Ciò non significa, peraltro (come affermano le Linee guida per la certificazione delle competenze nel primo ciclo di istruzione) «trascurare il ruolo determinante che tutti i più tradizionali risultati di apprendimento, oggi identificati principalmente nelle conoscenze e nelle abilità, svolgono in funzione di esse. Non è infatti pensabile che si possano formare delle competenze in assenza di un solido bagaglio di contenuti e di saperi disciplinari. La competenza costituisce il livello di uso consapevole e appropriato di tutti gli oggetti di apprendimento, ai quali si applica con effetti elaborativi, metacognitivi e motivazionali».

Dopo il confronto sui principi, i docenti dovrebbero individuare un lessico pedagogico comune, definendo cosa si intenda per apprendimento, abilità, conoscenza, competenza, valutazione ecc.

Piano curricolare: il curricolo verticale

Il lavoro di riflessione sin qui descritto in molte realtà scolastiche viene svolto con impegno nell’ambito della scuola dell’infanzia, mentre è accolto con convinzione decrescente da parte di coloro che operano nei successivi percorsi di studio.

Se si verificano queste situazioni è facile dedurre le conseguenze contrarie alle istanze di continuità che si rilevano sul piano dell’impostazione metodologico-didattica.

Ascoltando i racconti di insegnanti abituati a lavorare per Unità di apprendimento con alunni dai 3 ai 6 anni ho potuto personalmente constatare una profonda discrepanza di impostazioni metodologiche con i colleghi del successivo ordine di scuola, il cui lavoro procede per Unità didattiche definite a priori, dirette dal docente in maniera lineare e centrate su aspetti disciplinari (o pre-disciplinari).

Si tratta, in altre parole, di elementi ostativi a quella continuità curricolare (secondo aspetto che deve essere preso in considerazione nel Piano d’intervento per la continuità) che prevede «opportune armonizzazioni della programmazione didattica» auspicate dall’art. 2, comma 2 della Legge 148 del 5/06/1990 in relazione alla scuola primaria e secondaria di I grado.

Il coordinamento dei curricoli (anche solo limitatamente agli anni iniziali e terminali) deve prevedere innanzitutto la conoscenza dei programmi reciproci e la valorizzazione degli elementi di continuità presenti nei documenti programmatici.

Oltre a questo approccio conoscitivo, negli Istituti Comprensivi l’effettiva (e non formale) realizzazione di un curricolo verticale di Istituto (che ha, tra l’altro, una funzione informativa nei confronti dell’utenza e deve essere reperibile sul sito istituzionale) non può prescindere dal precedente confronto sui principi pedagogici e sulle conseguenti scelte metodologiche.

Esso, infatti, ha (o dovrebbe avere) la funzione di rendere esplicito il percorso formativo dello studente, finalizzato allo sviluppo delle competenze fondamentali e costruito dai docenti sul piano disciplinare e metodologico nel rispetto dei vincoli e delle finalità generali espresse dalle Indicazioni Nazionali.

È quindi auspicabile che si possa lavorare concretamente su un percorso educativo unitario e condiviso che pianifichi i traguardi da raggiungere nel tempo definendo obiettivi di apprendimento, contenuti culturali, impostazioni metodologiche e modalità di valutazione.

La più volte citata C.M. 339/1992 all’art. 2, comma 1 ha ben espresso quest’ultimo concetto: «Un vero e proprio progetto di continuità curriculare comporta l’individuazione di obiettivi, coordinati in senso longitudinale in relazione al progressivo sviluppo dell’alunno, che già i programmi delle tre scuole evidenziano chiaramente. Essi infatti sottolineano la preminenza dell’acquisizione di abilità, oltre che di conoscenze, di strategie, di consapevolezze, di comportamenti, all’interno di un’articolata gamma di aeree di conoscenza denominate come campi di esperienza nella scuola materna, come ambiti disciplinari emergenti gradualmente dal pre-disciplinare nella scuola elementare, come discipline di studio nella scuola media. Tali aeree hanno in ogni caso pari dignità formativa e si caratterizzano per quadri concettuali e metodologici differenziati di cui è essenziale che siano consapevoli e competenti tutti i docenti».

Purtroppo, analogamente a quanto riguarda l’enunciazione dei principi pedagogici, può accadere che il documento sia frutto di una semplice “composizione collettiva” e/o sia elaborato settorialmente (per ambiti) da gruppi di lavoro non comunicanti tra loro, che si limitino alla scelta di termini appropriati per descrivere aspetti disciplinari (pur posti in corrispondenza con competenze trasversali).

In questi casi, il documento in questione (cioè il curricolo verticale), anche se deliberato collegialmente è destinato ad essere conservato agli atti senza produrre effetti significativi sull’organizzazione del lavoro durante l’anno scolastico e, quindi, neppure nel momento del passaggio da uno all’altro ordine di scuola.

Piano organizzativo: non solo informazioni

La C.M. 339/1992 prevede ancora che i Piani di intervento per la continuità indichino modalità e criteri per la realizzazione del raccordo tra le scuole, termine che indica non un semplice passaggio di documenti, ma una condivisione di informazioni, anche acquisite in collaborazione con le famiglie.

Il primo strumento di presentazione documentale dell’alunno ai nuovi docenti è il fascicolo personale che, oltre ai dati di tipo amministrativo, raccoglie gli elementi informativi sul rendimento scolastico, gli atti relativi agli accertamenti e alle osservazioni sistematiche condotte, gli eventuali interventi personalizzati e i relativi esiti.

L’Istituzione scolastica che accoglie l’alunno deve richiedere alla scuola di provenienza tale fascicolo, la cui trasmissione costituisce obbligo e deve avvenire in tempo utile per la predisposizione degli adempimenti connessi con l’avvio dell’anno scolastico.

Non esiste un modello unico del fascicolo in questione, anche se la struttura è analoga e confrontabile tra le varie versioni (compresa quella digitale) adottate negli Istituti e basate su elaborazioni delle diverse case editrici.

I dati ricavati dal fascicolo non sono ovviamente sufficienti a far conoscere gli alunni e vanno integrati con quelli acquisiti nel corso degli incontri tra docenti delle scuole interessate, che devono essere organizzati secondo criteri, modalità e tempi descritti nei Piani d’intervento.

Per quanto riguarda, in particolare, la valutazione del percorso scolastico attuato è auspicabile «la predisposizione di comuni strumenti di rilevazione» preceduta da momenti di «incontro tra docenti per l’esplicitazione e la discussione dei criteri di accertamento e valutazione» (C.M. 339/1992).

Parliamo delle note prove di verifica in uscita e in entrata, che non hanno solo la funzione di inquadrare il livello raggiunto dal singolo alunno, ma anche quella di analizzare il processo di insegnamento/apprendimento e l’efficacia delle specifiche esperienze educative.

Tornando allo scambio cartaceo di informazioni, è diffuso l’utilizzo di griglie (diverse tra Istituzioni scolastiche ed elaborate in seno alle Commissioni sopra citate) che dovrebbero prevedere successivi colloqui tra insegnanti ma che, a volte, vengono semplicemente compilate e trasmesse.

È evidente che, in questo caso, la lettura univoca delle griglie stesse rivela atteggiamenti e convinzioni non in linea con il significato più autentico della continuità educativa, cioè ispirati dall’unico interesse da parte dei docenti, di stabilire i livelli di apprendimento e le caratteristiche comportamentali dei minori che entreranno a far parte delle future classi.

Quest’ultima considerazione ci porta comunque a sottolineare l’importanza delle indicazioni fornite dai docenti che hanno formato gli alunni nella precedente scuola (relative a personalità, affinità caratteriali, problemi familiari, valutazione delle competenze cognitive/comportamentali ecc.) ai fini della formazione delle classi iniziali nell’ordine successivo, nel rispetto delle competenze degli organi collegiali.

Gli Open Days

Il raccordo tra scuole prevede anche l’organizzazione delle iniziative finalizzate all’accoglienza dei futuri alunni nelle nuove realtà scolastiche.

Le principali esperienze in merito sono costituite dagli Open Days, che devono essere organizzati e strutturati in modo tale da offrire non solo l’occasione di visitare le strutture scolastiche, ma anche di conoscere concretamente la programmazione didattica prevista per l’anno che verrà.

Ovviamente, bisogna distinguere tra gli Open Days aperti anche alle famiglie e finalizzati alla scelta della futura scuola e le iniziative di continuità tra gruppi di alunni dei diversi ordini di scuola (ad esempio per attività comuni di laboratorio).

Continuità tra secondaria di I e di II grado

Per finire, ricordiamo che le azioni di continuità vanno progettate pure per il collegamento del segmento di percorso scolastico che abbiamo preso in considerazione con quello successivo, cioè con la scuola secondaria di secondo grado.

In questo frangente, tuttavia, le suddette azioni acquisiscono una connotazione specifica sul piano dell’orientamento che, come s’è detto in premessa e in conformità con le Linee guida in materia di orientamento lungo tutto l’arco della vita deve abbandonare una prassi quasi esclusivamente informativa e limitata ai momenti di transizione, cioè compressa nel breve spazio temporale idealmente riservato alla scelta del successivo indirizzo di studi.

La funzione della scuola, oltre a quella di accompagnamento e di consulenza orientativa, deve essere infatti quella di far acquisire e potenziare le competenze di base e trasversali attraverso una didattica orientativa che consenta ai ragazzi di identificare le proprie capacità, competenze, interessi e di prendere decisioni consapevoli.

Il D.Lgs. 21 del 14/01/2008 – successivamente modificato dall’art. 8 della Legge 128 dell’8/11/2013 (conversione del D.L. 104/2013) – prevede l’inserimento dei percorsi di orientamento nell’ultimo anno della secondaria di primo grado, anche attraverso l’utilizzo di strumenti di flessibilità didattica e organizzativa, diventando così parte pienamente organica della vita scolastica. Tali percorsi devono essere programmati nell’ambito del Piano Triennale dell’offerta formativa.

Solo in quest’ottica può assumere valore il Consiglio orientativo relativo agli alunni frequentanti le classi conclusive che, in quest’anno scolastico, le scuole secondarie di I grado hanno reso noto all’utenza dal 12 dicembre 2022.

Le Linee guida per l’orientamento

Per il futuro, andranno prese in considerazione le Linee guida per l’orientamento, decretate a fine dicembre dal ministro Valditara nell’ambito delle azioni inquadrate nel PNRR.

Con questo documento si introdurranno nella scuola secondaria, dall’a.s. 2023/2024, i cosiddetti moduli curricolari di orientamento che avranno la durata di 30 ore e, nel I grado e nel primo biennio del II grado, potranno svolgersi anche in orario extra curricolare.

Ogni modulo di orientamento dovrà prevedere apprendimenti personalizzati che andranno registrati in un portfolio digitale (denominato E-Portfolio).

Tale documento costituirà un’integrazione del percorso formativo e di apprendimento e avrà lo scopo di condurre alla scoperta dei “punti di forza” di ogni studente per accompagnare quest’ultimo (unitamente alla sua famiglia) nelle scelte da compiere per la realizzazione del proprio “Progetto di vita”.

Si noti che quest’ultimo concetto finora era stato impiegato quasi esclusivamente in relazione al PEI, redatto per gli alunni certificati ai sensi della Legge 104/1992.

In queste situazioni il Progetto di vita era – ed è tuttora – finalizzato a valutare (in base alle potenzialità e ai bisogni riscontrati) i possibili itinerari da percorrere per condurre i ragazzi disabili alla migliore futura condizione di “cittadini adulti”. Negli ultimi tempi, tuttavia, si è compresa l’importanza di trasferire tale discorso inclusivo sul piano dell’orientamento.

Tornando al portfolio, nelle intenzioni espresse nel decreto, non dovrà, peraltro, trattarsi di un’ennesima pagella o certificazione che dir si voglia. Lo studente, infatti, sarà chiamato a costruire attivamente in prima persona il portfolio stesso, condividendo tale azione con il docente tutor, allo scopo individuato tra i docenti di classe.

Affinché si possa condurre efficacemente tale delicato compito, per gli insegnanti tutor saranno previste specifiche iniziative di formazione, anche coordinate da Nuclei di supporto istituiti presso ciascun Ufficio Scolastico Regionale.

L’orientamento costituirà comunque una priorità strategica della formazione dei docenti di tutti i gradi d’istruzione.

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