Sinergie di Scuola

Il demansionamento, al pari del mobbing, costituisce argomento ricorrente e discusso negli ambienti di lavoro, e motivo molto frequente di ricorso all’autorità giurisdizionale.

Il tema è tornato di attualità anche alla luce di due recenti interventi normativi:

  • il D.L. 90/2014, che, quale primo intervento di riforma della pubblica amministrazione del nuovo Governo, introduce una chiara possibilità di demansionamento nel pubblico impiego;
  • il cosiddetto Jobs Act, che prevede ipotesi concrete e ulteriori di modifiche peggiorative nella mansioni dei lavoratori, si ipotizza relativamente al settore privato, anche se in queste settimane la polemica infervora sulla estensibilità della misura anche ai lavoratori pubblici.

Di seguito si cercherà di analizzare questo e altri temi nell’ambito della materia, con una spiccata attenzione per gli interventi giurisprudenziali, in questo ambito, appunto, molto numerosi e dettagliati.

Cos’è il demansionamento 

Per inquadrare il concetto, denominato anche ius variandi, occorre tener presente due disposizioni fondamentali, il codice civile e lo Statuto dei lavoratori, art. 13, che ha modificato sul punto l’intero testo dell’art. 2103 codice civile.

Riportiamo il testo della disposizione:

Art. 2103 - Mansioni del lavoratore
Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo.

Come ben descritto dalla norma, esiste un diritto inderogabile, per il lavoratore, ad essere adibito alle stesse mansioni per cui è stato assunto (o ad altre equivalenti), mantenendo la medesima retribuzione, oppure, come unico caso previsto, è possibile svolgere mansioni superiori con diritto in alcuni casi alla mansione corrispondente. È quindi vietato, secondo la normativa vigente, “retrocedere” il lavoratore, e pagarlo meno rispetto al momento della sua assunzione. Ogni patto contrario, è ribadito, è nullo, e anche i trasferimenti debbono avvenire solo se sussistono «comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive»

Si evince dal testo della norma, anche alla luce della tutela garantita al lavoratore dalla Costituzione (ad esempio l’art. 35 sancisce che la Repubblica «Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori») che oggetto di tutela non è solamente il trattamento retributivo, che non può essere peggiorato, ma anche la professionalità acquisita. 

Costante e varia è l’interpretazione giurisprudenziale sul punto. Solo a titolo di esempio riportiamo uno stralcio di una recentissima pronuncia della Cassazione, la n. 1262 del 2015, utile per inquadrare meglio la fattispecie, per cui «per costante insegnamento giurisprudenziale di questa Corte Suprema, il divieto ex art. 2103 c.c. di variazioni in peius delle mansioni opera anche quando al lavoratore, pur nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori quanto a contenuto professionale. Pertanto, nell’indagine circa l’esistenza o meno di un’equivalenza tra le vecchie e le nuove mansioni non basta il riferimento in astratto al livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza tecnico professionale del dipendente e siano tali da salvaguardarne il livello professionale, in una prospettiva dinamica di valorizzazione della capacità di arricchimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze»

Il legislatore ammette, in casi selezionati, delle deroghe al divieto


A titolo di esempio, si ricordano i casi disciplinati dall’art. 7 D.Lgs. 151/2001, per cui è possibile adibire la lavoratrice durante la gestazione e nei primi mesi di vita del bambino a mansioni inferiori in caso di attività pericolose per la stessa, mantenendo la medesima retribuzione, e dall’art. 42 D.Lgs. 81/2008, per cui in caso di dichiarata (dalle autorità mediche competenti) inidoneità del lavoratore, il datore di lavoro può prevedere di adibirlo a «mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza».

Le ipotesi selezionate prevedono un bilanciamento di interessi in casi di diritti costituzionalmente garantiti; in questo caso, il bilanciamento viene operato con il preminente diritto alla salute del lavoratore. 

Jobs Act e demansionamento

Il Jobs Act corrisponde alla Legge delega 183 del 2014; sulla base di questa norma, il Governo è tenuto ad emanare dei decreti legislativi che dettaglino e specifichino le misure generali della delega.

Ebbene, l’art. 1, comma 7 lett. e della Legge delega n. 183/2014, testualmente riporta quale principio e criteri direttivo: 

e) revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento; previsione che la contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, stipulata con le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria possa individuare ulteriori ipotesi rispetto a quelle disposte ai sensi della presente lettera.

La norma è chiara, e ha dato luogo ad ovvie polemiche e allarmi: si prevede espressamente che in casi di «riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale» si possano modificare le mansioni del lavoratore.

La previsione determina una chiara contrazione della norma sul demansionamento sopra vista, che dovrà, in caso di esercizio di delega conforme, essere completamente riscritta.

A oggi sono stati pubblicati due decreti attuativi della Legge n. 183, i DD.Lgss. n. 22 e 23 del 4/03/2015; la norma al centro di così aspra polemica per ora non sembra sia stata oggetto di delega, ma si attendono, a breve, altri due decreti attuativi.

Nel frattempo circolano bozze (e relative analisi) della norma che nel decreto attuativo darebbe dettaglio della ipotesi di demansionamento. Come nostro costume, preferiamo non pronunciarci se non su testi di legge vigenti.

È evidente tuttavia che la norma si pone su un terreno foriero di aspra conflittualità tra datore di lavoro e lavoratore, e rischia di operare uno sbilanciamento a danno di quest’ultimo in contrasto sia con la Costituzione, sia con gli orientamenti pluriennali e consolidati della giurisprudenza.


Demansionamento nel pubblico impiego

L’articolo di riferimento è il 52 del T.U. 165/2001, che prevede, in maniera non del tutto assimilabile al divieto generale, che «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive di cui all’articolo 35, comma 1, lettera a). L’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore o dell’assegnazione di incarichi di direzione»

Come evidente, nel caso del pubblico impiego ancora si riflette una concezione molto più rigida e forse “sindacalizzata” della mansione. A differenza della disciplina generale dettata dal codice civile, infatti, l’articolo riportato prevede che le mansioni che si ha diritto a mantenere siano quelle equivalenti nell’area di inquadramento oppure corrispondenti alla qualifica superiore ottenute per effetto di procedure selettive (ovvero progressioni). Si dà rilievo quindi alla classificazione delle mansioni (e alle procedure di selezione “interna”) così come operata dai CCNL di settore.

Una ipotesi di demansionamento concreta, passata a dire il vero abbastanza sotto silenzio, è invece stata recentemente prevista in via specifica proprio per il pubblico impiego. 

Con la prima riforma della Pubblica Amministrazione del Governo Renzi infatti, intervenuta con il D.L. 90/2014 convertito nella Legge 114/2014, all’art. 5 così si prevede: 

[...] Nei sei mesi anteriori alla data di scadenza del termine di cui all’art. 33, comma 8, il personale in disponibilità può presentare, alle amministrazioni di cui ai commi 2 e 3, istanza di ricollocazione, in deroga all’art. 2103 del codice civile, nell’ambito dei posti vacanti in organico, anche in una qualifica inferiore o in posizione economica inferiore della stessa o di inferiore area o categoria di un solo livello per ciascuna delle suddette fattispecie, al fine di ampliare le occasioni di ricollocazione. In tal caso la ricollocazione non può avvenire prima dei trenta giorni anteriori alla data di scadenza del termine di cui all’art. 33, comma 8. Il personale ricollocato ai sensi del periodo precedente non ha diritto all’indennità di cui all’art. 33, comma 8, e mantiene il diritto di essere successivamente ricollocato nella propria originaria qualifica e categoria di inquadramento, anche attraverso le procedure di mobilità volontaria di cui all’art. 30. In sede di contrattazione collettiva con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative possono essere stabiliti criteri generali per l’applicazione delle disposizioni di cui al quinto e al sesto periodo.

Nell’ipotesi prevista dall’art. 33 comma 8 del D.Lgs. 165/2001, quindi, ovvero in caso di collocamento in disponibilità del personale in esubero che non sia stato possibile occupare diversamente, che dura massimo 24 mesi, e nei sei mesi antecedenti la scadenza di detto periodo, il personale può presentare, pur di evitare il licenziamento, istanza di collocazione anche in qualifica o posizione economica inferiore.

La norma, piuttosto recente, ha sicuramente bisogno di specifiche di dettaglio per poter essere attuata, e non risulta sia stata ad oggi oggetto di applicazione concreta.

Di certo la portata della stessa è dirompente, poiché codifica un’ipotesi evidente di demansionamento “legale” anche nel settore pubblico a prescindere dai casi normativamente previsti e correlati al diritto alla salute.


A proposito, invece, delle altre norme del Jobs Act e della sua applicabilità anche al settore pubblico, rileviamo che le stesse norme del T.U. Pubblico Impiego, per inciso, ribadiscono l’equiparazione operante ormai da anni tra settore pubblico e privato a seguito della contrattualizzazione del lavoro “statale”.

Vi è tuttavia un atteggiamento del legislatore che continua a sottolineare, in numerosissime altre ipotesi (dal regime delle incompatibilità, al blocco contrattuale, alle assenze per malattia sottoposte ad un regime di reperibilità ben più rigido, all’impossibilità di detassare il salario accessorio), le differenze tra i due settori, ribadite e suffragate da costante giurisprudenza anche costituzionale. Solo a titolo di esempio, si riporta un passo di una recente sentenza della Corte dei Conti a proposito delle incompatibilità (regime peculiare del pubblico impiego), la n. 216/2014:

Il rapporto di lavoro con il datore pubblico è storicamente caratterizzato, a differenza di quello privato, dal c.d. regime delle incompatibilità, in base al quale al dipendente pubblico [...] è preclusa la possibilità di svolgere attività extralavorative. La ratio di tale divieto, che permane anche in un sistema “depubblicizzato” a rimarcare la peculiarità dell’impiego presso la p.a., va rinvenuta nel principio costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore pubblico (“I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” art. 98 Cost.), per preservare le energie del lavoratore e per tutelare il buon andamento della p.a., che risulterebbe turbato dall’espletamento da parte di propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto. Centri di interesse alternativi all’ufficio pubblico rivestito, implicanti un’attività caratterizzata da intensità, continuità e professionalità, potrebbero turbare la regolarità del servizio o attenuare l’indipendenza del lavoratore pubblico e il prestigio della p.a. Un simile obbligo di esclusività non è rinvenibile nell’impiego privato, nel quale il codice civile si limita a vietare esclusivamente attività extralavorative del dipendente che si pongano in concorrenza con l’attività del datore (art. 2105 c.c.). 

A titolo conoscitivo, si ricorda che in tempi recenti la Ministra per la P.A. Madia ha escluso la piena compatibilità del Jobs Act nei confronti del pubblico impiego.

Demansionamento e mobbing

Si verifica molto spesso in sede di giudizio la correlazione, espressa nei ricorsi dei lavoratori, tra demansionamento e mobbing.

La giurisprudenza, pur riconoscendo in molti casi la relazione esistente tra le due fattispecie, ha spesso teso ad evidenziare le profonde differenze tra le due ipotesi.

È molto interessante sul punto la ricostruzione operata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 28 del 12/01/2015. Nel caso di specie, si trattava di un lavoratore pubblico che aveva proposto un primo ricorso al TAR per mobbing e demansionamento; il Tar non riconobbe il disegno persecutorio reiterato nel tempo e finalizzato alla persecuzione e vessazione, quindi l’elemento fondamentale per potersi parlare di mobbing, e nessuna altra forma di danno. Contro la sentenza l’interessato presentò appello, che venne accolto, per la sola parte relativa al demansionamento e non al mobbing. Proprio contestando la ricostruzione operata dal TAR, il Consiglio di Stato ha rammentato con la pronuncia in esame che «il T.A.R. è dunque incorso in error in iudicando omettendo di risarcire il danno da demansionamento, poiché ha anzitutto trascurato che il ricorrente in prime cure avesse chiesto, in una con il risarcimento da mobbing, anche il danno da demansionamento e ha dimenticato, così ragionando, che la dequalificazione non si può configurare come mobbing, se non si riesce a dimostrare l’esistenza di un intento persecutorio da parte del datore di lavoro, ma il demansionamento, qualora provochi danni morali e professionali, dà diritto, comunque e certamente, al risarcimento indipendentemente dalla sussistenza anche del mobbing (v., ex plurimis, Cass., sez. L, 23/07/2012, n. 12770)».


La ricostruzione operata dalla magistratura si basa su elementi di fatto quali l’esercizio delle mansioni svolte, ritenute degradanti a prescindere dall’inquadramento formale, e le numerose testimonianze dei colleghi, oltre a note scritte dell’Amministrazione. Il Consiglio inoltre, nel non riconoscere il danno biologico, poiché il danno psichico non sarebbe stato direttamente collegato al demansionamento, ricorda che «in tema di dequalificazione, il giudice del merito può desumere l’esistenza del relativo danno, avente natura patrimoniale e, ricorrendone i presupposti, anche non patrimoniale, il cui onere di allegazione incombe al lavoratore, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto».

In tema di danno morale o “esistenziale” conseguente a demansionamento, invece, la ricostruzione operata evidenzia quanto sopra accennato a proposito del carattere non meramente retributivo del diritto alla mansione, che invece, se violato, si atteggia, per dirla con le parole del Consiglio, come «mortificazione della professionalità [...] un grave vulnus alla [...] dignità, di uomo e di lavoratore, nei termini di un’offesa seria a diritti, come quello alla dignità personale e al lavoro, di sicuro rango e tutela costituzionale» tale da meritare «ristoro con il riconoscimento del danno non patrimoniale, pure al di fuori e al di là della lamentata lesione del diritto alla salute (c.d. danno biologico)»

Dalla giurisprudenza della Cassazione, altre ipotesi

Demansionamento e tempo

La Corte di Cassazione ha posto l’accento anche sul tempo come elemento fondante per caratterizzare il demansionamento come fattispecie giuridicamente rilevabile.

Con la sentenza n. 3844 del 2015, la Corte ha ritenuto che per qualificarsi come demansionamento, l’eventuale inattività, o minore attività, deve durare per un intervallo di tempo apprezzabile, e deve essere «produttivo di quelle conseguenze negative che la legge vuole scongiurare e cioè la mortificazione anche personale del dipendente e il mancato esercizio delle competenze in precedenza acquisite»

Demansionamento e danno

Come visto prima nel caso analizzato dal Consiglio di Stato, e come ricorrente e consolidato nelle varie sedi giurisprudenziali, non è mai sufficiente tratteggiare la condotta lesiva per dimostrare un danno, ma va evidenziata la lesione e il nesso eziologico con la condotta che si lamenta.

La Cassazione, con sentenza n. 1327 del 2015, ha affermato che «il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale [...] non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo [...] provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 cod. civ. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale».

Nel caso di specie, si trattava proprio di una dirigente scolastica cui erano state affidate successivamente mansioni ispettive; il ritardo nell’immissione vera e propria delle nuove funzioni è stato considerato dalla Cassazione, in questo caso, di breve entità, e del tutto giustificato dalla fase di rodaggio per un ufficio di nuova istituzione.

© 2025 HomoFaber Edizioni Srl - Tutti i diritti riservati. Sono vietate la copia e la riproduzione senza autorizzazione scritta. Sono ammesse brevi citazioni ed estratti indicando espressamente la fonte (Sinergie di Scuola) e il link alla home page del sito.