Sinergie di Scuola

Con ordinanza del 1° agosto 2015 il Tribunale di Milano ha considerato legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore che aveva pubblicato su Facebook, in orario di lavoro, alcune foto che lo ritraevano in ambiente lavorativo, accompagnate da frasi denigratorie nei confronti del datore di lavoro e dell’azienda.

Oltre a questo, al dipendente era stato contestato l’uso di un pc aziendale per accedere a siti internet del tutto estranei all’attività lavorativa e nella quasi totalità siti di contenuto pornografico.

L’azienda, dopo avere contestato al lavoratore i fatti di cui sopra, ha proceduto con il licenziamento, adducendo le seguenti motivazioni: «Si tratta di fatti, anche autonomamente considerati, di particolare gravità. Ciascuno dei comportamenti contestati viola Suoi doveri fondamentali, tra i quali quelli basilari di rendere con diligenza la Sua prestazione lavorativa e rispettare la disciplina nel lavoro e integra, sotto più profili, le previsioni di cui all’art. 54, n. 1) e n. 2, lett. e) e o), del C.N. L. G.P. Tali Suoi comportamenti, oltre a presentare una valenza esemplare estremamente negativa rispetto a colleghi e terzi, sono tali da pregiudicare la nostra Società e la sua immagine e da ledere irreparabilmente la fiducia che la nostra Società deve poter riporre in Lei. In tale contesto, ci vediamo costretti a comunicarLe il licenziamento per giusta causa, con effetto immediato, e formuliamo espressa riserva di azione nei Suoi confronti per il risarcimento dei danni e la tutela di ogni diritto della nostra Società [...]».

In un primo momento il lavoratore ha provato a difendersi, giustificando l’allontanamento dal posto di lavoro come pausa caffè in attesa di procedere con una lavorazione in quel momento impossibile e negando ogni responsabilità per la pubblicazione delle foto scattate in azienda e delle relative didascalie sulla pagina pubblica del proprio profilo Facebook, ipotizzando addirittura l’intrusione di una persona estranea che avrebbe modificato i commenti e modificato le impostazioni della privacy.

Giustificazioni che per i Giudici non sono risultate affatto convincenti, soprattutto perché, in seguito, in occasione dell’interrogatorio libero, il ricorrente ha ammesso: «le tre foto scattate e pubblicate sul profilo Facebook sono state scattate sul posto di lavoro, ma durante una pausa caffè. Ero andato nell’altro capannone per chiedere una sigaretta, perché ero rimasto senza. Sul luogo di lavoro si può fumare. Nella foto con me ci sono S. e M. Non so perché sono risultate pubblicate sulla pagina pubblica, non so dire, non me lo ricordo. È vero che nelle giustificazioni ho scritto che qualcuno mi aveva sottratto la password di Facebook per modificare la pubblicazione, ma non so come e chi avrebbe potuto farlo. Confermo che ho scritto io quelle didascalie, si è trattato di una battuta stupida, ero nervoso».

Il che ha in pratica consentito di ritenere provati, sotto un profilo prettamente oggettivo, sia l’allontanamento dal luogo di lavoro che la responsabilità del ricorrente per la pubblicazione delle foto oggetto di contestazione, e delle relative didascalie, sulla pagina pubblica del profilo Facebook.

Per quanto riguarda la seconda contestazione, il lavoratore si è difeso adducendo di non essere l’unico dipendente in servizio in quel turno e a quell’ora, né l’unico a essere in possesso delle chiavi per accedere al locale ove erano ubicati i computer; e ha inoltre sostenuto che, ove mai avesse visitato i siti in questione, avrebbe quantomeno cancellato la cronologia per non lasciare alcuna traccia evidente.

Ma anche queste giustificazioni non sono state considerate valide, soprattutto a seguito della testimonianza, ritenuta attendibile, di un collega, secondo il quale il ricorrente era stato l’unico ad entrare in quell’ufficio quella sera.

Per il Giudice, quindi, «considerate nella loro estrinsecazione prettamente oggettiva, le condotte risultano di particolare gravità per essere, entrambe, un’evidente violazione dei più elementari doveri di diligenza, lealtà e correttezza» e giustificano pertanto il licenziamento per giusta causa.

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