Sinergie di Scuola

Con il termine mobbing (dall’inglese to mob: assediare, circondare) si intende una condotta antidoverosa tenuta in ambito lavorativo, la cui configurazione non è semplice da descrivere. Non esiste infatti una definizione specifica di tale comportamento, né risulta codificato il reato di mobbing, ma sono numerose le pronunce giurisprudenziali, del giudice ordinario, amministrativo e contabile, che agevolano per circoscrivere la fattispecie.

La figura inoltre può essere correlata a vari articoli della Costituzione (diritti dei lavoratori, principio di uguaglianza e divieto di discriminazione), del codice penale (configurazione di molestia, lesioni, minacce, violenza sessuale), del codice civile (obblighi del datore di lavoro, responsabilità contrattuale ed extracontrattuale).

Altre fonti possono ritenersi collegate alla fattispecie, anche se non direttamente, come lo Statuto dei lavoratori (Legge 300/1970) e il D.Lgs. 81/2008 (Testo unico per la sicurezza sul lavoro).

Ancora, il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (D.P.R. 62/2013), come noto declinato nei singoli codici delle varie amministrazioni, dispone in varie norme sul rispetto del benessere dei lavoratori; importante è la disposizione recata dall’art. 13 a norma del quale «Il dirigente cura, compatibilmente con le risorse disponibili, il benessere organizzativo nella struttura a cui è preposto, favorendo l’instaurarsi di rapporti cordiali e rispettosi tra i collaboratori, assume iniziative finalizzate alla circolazione delle informazioni, alla formazione e all’aggiornamento del personale, all’inclusione e alla valorizzazione delle differenze di genere, di età e di condizioni personali».

L’interpretazione del Consiglio di Stato

Una definizione di mobbing si può trarre da una recente pronuncia del Consiglio di Stato (come noto competente per l’ambito del pubblico impiego in regime ancora pubblicistico, come nel caso di specie ove si trattava del settore delle forze armate).

Con la sentenza 952/2022, la superiore magistratura amministrativa ha infatti affermato che «[...] nell’ambito dei rapporti di pubblico impiego e della conseguente responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. il mobbing si sostanzia in una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica (ex multis Cons. St., sez. VI, 13/03/2018, n. 1589; 28/01/2016, n. 284; 12/03/2015, n. 1282)».

Prosegue la pronuncia: «Nello specifico devono ricorrere una pluralità di elementi costitutivi ovverosia:

  1. una serie di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  2. l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
  4. l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi».

Come evidente, ed è bene sottolinearlo considerato che il termine mobbing viene spesso utilizzato negli ambienti di lavoro senza particolare riguardo al concreto inquadramento della figura, sono gravosi e specifici gli oneri a carico del ricorrente che voglia intraprendere un giudizio in questo campo.

La giurisprudenza ha più volte chiarito che il lavoratore non può limitarsi, davanti al giudice, a dichiarare genericamente di esser vittima di mobbing, ma deve quanto meno provare concreti elementi in base al quale il Giudice possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione.

Va rammentato quindi che:

  1. gli elementi di prova vanno precostituiti, provando ed esibendo tutti i provvedimenti che si ritengono mobbizzanti, sia quelli organizzativi che quelli reputati vessatori in sé, comprese le ingiurie e le minacce;
  2. la lesione della personalità e del proprio stato di salute debbono essere dimostrate documentalmente: il danno da mobbing è sempre un danno certo e provato, anche e soprattutto tramite certificati medici atti a suffragare uno stato di salute compromesso, e a evidenziare un nesso causale con i comportamenti ritenuti mobbizzanti;
  3. l’onere della prova grava sul lavoratore;
  4. va dimostrato sempre il nesso eziologico: non sono sufficienti isolati episodi, ma occorre dimostrare la «sistematicità dell’intento persecutorio» e la sua stretta connessione con il danno causato.

Mobbing e danno

Il mobbing è stato più volte riconosciuto, da parte del giudice contabile, produttivo di danno erariale; qualora il datore di lavoro pubblico e lo Stato vengano condannati a rifondere i danni patiti dai dipendenti vittime di mobbing, infatti, è conseguenza naturale l’azione di rivalsa nei confronti del dipendente individuato come responsabile.

Tali interventi si sono verificati anche in ambito scolastico; con la sentenza 135/2013, riportiamo solo a titolo di esempio, la sezione giurisdizionale della Corte dei Conti del Piemonte infatti ritenne fondata l’azione di rivalsa dello Stato, nella specie l’allora Ministero Istruzione, Università e Ricerca, nei confronti di un Dirigente scolastico, responsabile di condotta mobbizzante nei confronti di un dipendente tramite condotte gravi, reiterate e produttive di dimostrato danno alla salute.

Il danno risarcibile in sede civilistica, invece, come chiarito dalla Corte di Cassazione (sentenza 687 del 15/01/2014) consiste in danno non patrimoniale, la cui liquidazione deve essere complessiva e tale da coprire l’intero pregiudizio subito, non essendo possibile, se non per motivate ragioni, scindere le due ipotesi di danno morale e danno biologico.

Con la sentenza 211/2022 della sezione giurisdizionale per la Lombardia, la Corte dei Conti ha riconosciuto rimborsabile da un Dirigente scolastico l’esborso sostenuto dall’allora MIUR per le condotte ritenute vessatorie e mobbizzanti del Dirigente nei confronti di una docente, a titolo di danno erariale indiretto. Nel caso di specie, sono stati riconosciuti tutti gli elementi fondanti il danno erariale, ovvero:

  • il rapporto di servizio del Dirigente con lo Stato;
  • la sussistenza del danno (depauperamento del Ministero);
  • la condotta illecita collegata causalmente al danno, sussistente in vessazioni di varia natura, compresa negazione dei diritti connessi alla fruizione dei benefici di cui alla Legge 104/1992, con conseguenti malori documentati dalla docente.

Interessante è l’accertamento della mancanza di dolo nella condotta del dirigente, ovvero dell’intenzionalità della condotta, in parte agevolata dal comportamento non del tutto chiaro della docente e dalle interlocuzioni con l’Ufficio Scolastico Regionale, tale da determinare, ad opera del giudice contabile, una diminuzione dell’importo da risarcire, a titolo comunque di colpa grave.

La piena intenzionalità del comportamento è infatti il discrimine da considerare per determinare il dolo o viceversa, come nel caso di specie, la condotta gravemente colpevole in quanto comunque illegittima e vessatoria.

L’approfondimento delle pronunce giurisprudenziali è ancora una volta illuminante per definire una fattispecie comunque non agevole da inquadrare e da provare in sede di giudizio, non essendo sufficienti difficoltà relazionali e “anomalie” comportamentali, spesso verificabili negli ambienti di lavoro, per poter configurare il mobbing.

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