Sinergie di Scuola

La Corte di Cassazione, attraverso l’ordinanza n. 21262 del 13/09/2017, torna ad occuparsi di un fenomeno sempre più attuale: il mobbing.

L’episodio della presunta vessazione si sarebbe verificato, a detta della ricorrente, una direttrice dei servizi generali ed amministrativi di una scuola media milanese, a far data dal 2001, ad opera della Dirigente scolastica.

In questo caso saremmo in presenza del c.d. mobbing verticale (o bossing), la forma più ricorrente, che consiste negli abusi perpetrati ai danni di uno o più dipendenti da un loro diretto superiore gerarchico o da parte di chi ha poteri gestionali e di controllo nei confronti di altri lavoratori. In questi casi è chiara la asimmetria nei rapporti di forza tra il mobber e il mobbizzato.

Diverso sarebbe il caso di mobbing orizzontale, caratterizzato dal manifestarsi di atti persecutori messi in atto da uno o più colleghi nei confronti di un altro, spesso finalizzati a screditare la reputazione di un lavoratore mettendo in crisi la sua posizione lavorativa.

Esiste, peraltro, anche una fattispecie di mobbing perpetrata dal basso o low mobbing, da parte di colleghi che si coalizzano contro il superiore gerarchico, rendendogli la vita impossibile (classico è l’esempio dei docenti facenti parte di un consiglio di classe o dei docenti che, in aperto contrasto con le posizioni prese dal Dirigente scolastico, mettono in atto comportamenti ostruzionistici, di palese contrapposizione o di scarsa collaborazione con il preside con l’intento di fargli cambiare istituto scolastico).

Tornando al caso di cui ci occupiamo, ho evidenziato che si tratta di presunta vessazione poiché, in data 10 maggio 2011, la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza n. 3434/2008 del Tribunale di Milano, che aveva rigettato la domanda di accertamento di mobbing e di condanna al risarcimento del danno proposta dalla direttrice nei confronti della preside e del MIUR.

La Dsga si è rivolta, allora, alla Cassazione, perché la Corte d’Appello aveva ritenuto che la direttrice amministrativa non avesse dato prova del c.d. “dolo specifico”, cioè dell’intenzione della Dirigente scolastica di discriminare e vessare la Dsga e non avesse indicato presunzioni gravi, precise e concordanti della situazione di mobbing, affermando che i contrasti tra la dirigente dell’istituto e la direttrice amministrativa, in ordine alle modalità di svolgimento delle prestazioni di lavoro, non fossero indicativi di un intento vessatorio del dirigente nei confronti del lavoratore. Anzi, che si fosse trattato di provvedimenti resi necessari dal generale mal funzionamento dell’ufficio, nonché di doveroso e corretto esercizio del potere assegnato alla preside nella sua qualità di dirigente.

La Cassazione, nel ribadire la correttezza dell’operato dei giudici di secondo grado, ha ricordato i requisiti necessari per la configurazione del mobbing.

Requisiti necessari perché vi sia mobbing

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità, cioè dalla Cassazione, se logicamente e congruamente motivato:

  1. una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti (es. molestie o minacce) o anche leciti (es. richiami scritti) se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  2. l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. il nesso eziologico (cioè un evidente rapporto di causa-effetto) tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
  4. l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Il tipo di azione messo in atto

In merito al punto a, le azioni che possono essere messe in atto da parte di colleghi o superiori nei confronti di un collega o sottoposto che diventa una vittima designata, possono essere classificate, secondo le numerose sentenze della Corte di Cassazione, in:

  • pressioni o molestie psicologiche;
  • calunnie sistematiche;
  • maltrattamenti verbali ed offese personali;
  • minacce o atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente o avvilire, anche in forma velata e indiretta;
  • critiche immotivate e atteggiamenti ostili;
  • delegittimazione dell’immagine, anche di fronte a colleghi e a soggetti estranei all’impresa, ente o amministrazione;
  • esclusione od immotivata marginalizzazione dall’attività lavorativa ovvero svuotamento delle mansioni;
  • attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi, e comunque idonei a provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore;
  • attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto;
  • impedimento sistematico e immotivato all’accesso a notizie e informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro;
  • marginalizzazione immotivata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e di aggiornamento professionale;
  • esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti del lavoratore, idonee a produrre danni o seri disagi;
  • atti vessatori correlati alla sfera privata del lavoratore, consistenti in discriminazioni (v. documento del sindacato UIL).

È da considerare, inoltre, che la frequenza e la durata dei comportamenti vessatori sono parametri fondamentali per distinguere il mobbing da altre fattispecie, quali ad esempio semplici dissidi o litigi in ambito lavorativi. Sulla frequenza, in genere gli atti ostili devono avere una cadenza di almeno alcune volte al mese. Invece il protrarsi nel tempo di dette azioni deve durare un minimo di 6 mesi per alcuni studiosi, mentre per altri devono continuare per almeno 3 mesi. Nell’ambito di tale periodo, quindi le condotte lesive devono essere reiterate, sistemiche. I comportamenti, in esame devono quindi essere “indizio” di un particolare disegno persecutorio verso la vittima.

Infatti, proprio tali requisiti hanno una fondamentale importanza perché, sul piano generale, non può essere ricondotta alla fattispecie del mobbing una singola condotta illecita di per sé considerata, quale per esempio un demansionamento, un trasferimento illegittimo o una molestia sessuale ecc.

Tale singola condotta, però, potrebbe rientrare in una diversa fattispecie, di recente configurazione giurisprudenziale: lo straining (v. Cass. n. 3291 del 19/02/2016).

Il danno da mobbing

Sempre in merito alle predette condotte, e allargando la prospettiva anche al punto b, si ritiene utile citare un caso giudicato dal Tribunale di Brescia, con sentenza n. 363/2014, relativamente ad un dipendente che, in qualità di assistente amministrativo presso una scuola media statale, era stato fatto oggetto di continui atti vessatori da parte del Dirigente scolastico e, soprattutto, della direttrice amministrativa. Essi consistevano in richieste di chiarimenti, relative anche a fatti a lui non imputabili; contestazioni disciplinari in rapida successione seguite da ben cinque sanzioni disciplinari; demansionamento; aggressioni verbali; rifiuto di ferie; redazione di testimonianze scritte contro di lui fatte sottoscrivere forzosamente dai colleghi ecc. Tali atti vessatori avevano determinato l’insorgere in lui di uno stato ansioso depressivo, che aveva avuto anche manifestazioni eclatanti di malori sul luogo di lavoro e che avevano reso necessario il ricorso a cure specialistiche, anche farmacologiche.

Il Tribunale, riconosciuto il comportamento mobbizzante dei superiori gerarchici, ha chiarito in cosa consiste il conseguente danno biologico subito dal ricorrente.

Il danno da mobbing, in particolare nel caso in cui non vi è stata né perdita del posto di lavoro né perdita di capacità lavorativa specifica, ma solo l’influenza negativa sul rendimento del mobbizzato, dal punto di vista della «lesione della sicurezza economica con perdita delle capacità psicofisiche quali le difficoltà di memoria e di concentrazione, la paralisi della creatività, l’annullamento dello spirito di iniziativa», non può essere qualificato come danno patrimoniale, ma come danno esistenziale.

Il danno biologico rileva sotto il profilo, da un lato, della compromissione psico-fisica della persona, avente riflesso su tutte le manifestazioni della medesima (compreso quindi anche il danno esistenziale), indipendentemente dall’incidenza sulla capacità di guadagno in senso stretto ma anche, dall’altro lato, sotto il profilo delle sofferenze morali connesse alle lesioni riportate (cioè il danno morale).

Nella sentenza n. 26972/2008, le Sezioni Unite della Cassazione hanno infatti affermato che «il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. Ne consegue che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali, ove derivanti da reato, del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello cosiddetto esistenziale».

Ne deriva, conclude il giudice bresciano, che il danno biologico nel caso di specie assorbe anche il danno specifico da mobbing, nonché il danno non patrimoniale di tipo psicologico ed esaurisce il danno subito dal ricorrente.

Documentazione necessaria

Circa il punto c, occorre brevemente evidenziare che le sofferenze psicologiche di chi pretende il risarcimento del danno da mobbing devono essere dimostrate in seguito ad apposita documentazione medica e, come di solito accade, perizia di un consulente nominato dal tribunale, dovendo inoltre sussistere uno stretto ed evidente collegamento causale tra tali disagi e la (deteriorata) qualità della condizione lavorativa del ricorrente.

L’onere della prova spetta al dipendente

In merito all’ultimo punto d, la Cassazione ha più volte affermato che è essenziale, affinché il fenomeno del mobbing possa assumere giuridica rilevanza, l’esistenza di plurimi elementi, la cui prova compete al prestatore di lavoro, di natura sia oggettiva che soggettiva (elencati nei punti che stiamo esaminando) e, fra questi, l’emergere di un intento di persecuzione, che non solo deve assistere le singole condotte poste in essere in pregiudizio del dipendente, ma anche comprenderle in un disegno comune e unitario, quale tratto che qualifica la peculiarità del fenomeno sociale e giustifica la tutela della vittima (v., tra tante, Cass., Sez. lav., 15/02/2016, n. 2920).

Conclusione dei giudici

In conclusione occorre ribadire che, nella fattispecie decisa con l’ordinanza n. 21262/2017, dalla quale siamo partiti, la Cassazione non solo ha stabilito che mancava ogni intento persecutorio nei confronti della ricorrente, ma che i contrasti tra la dirigente dell’istituto, in ordine alle modalità di svolgimento delle prestazioni di lavoro, erano scaturiti in seguito a provvedimenti resi necessari dal generale mal funzionamento dell’ufficio, nonché del doveroso e corretto esercizio del potere assegnato al preside quale dirigente (che avevano indotto questa ultima a chiedere un’ispezione per irregolarità da parte del Provveditorato agli studi – ora Ufficio scolastico territoriale – nonché l’eventuale nomina di un Commissario ad acta per la verifica dei conti). Non sussisteva nemmeno il demansionamento, non potendo lo stesso essere integrato dal richiamo al dovere di adempiere ai propri compiti con diligenza e attenzione.

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