Sinergie di Scuola

Il provvedimento di cui ci occuperemo in questo numero, l’ordinanza della Cassazione 17/04/2019, n. 10725, affronta due differenti tematiche in stretta connessione tra loro.

Da un lato l’avvenuto licenziamento di una lavoratrice per un presunto superamento del periodo di comporto, dall’altro lato il comportamento mobbizzante che la stessa ha dovuto sopportare per mano del datore di lavoro (si tratta quindi di “bossing”).

Entrambe le fattispecie sono state ritenute illegittime dalla Corte di legittimità, che ha avuto modo di precisare e ribadire alcuni concetti-chiave.

Superamento del periodo di comporto

Riguardo al superamento del periodo di comporto, cioè del periodo massimo di assenza dal lavoro per malattia, previsto nella contrattazione collettiva, di cui può godere il dipendente senza temere di essere licenziato, la Cassazione ha statuito che:

  1. Il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie. Nel caso di specie la lavoratrice aveva fatto domanda di ferie per allungare il periodo di assenza dal lavoro, sommando così le ferie alla malattia, ma tale richiesta era stata respinta dall’azienda.
  2. A tale facoltà non corrisponde però un obbligo del datore di lavoro di accogliere automaticamente la richiesta, qualora dimostri che ricorrano ragioni organizzative aziendali che impediscano il prolungamento dell’assenza del dipendente.
    Gli Ermellini, in un’ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, evidenziano a chiare lettere, tuttavia, la necessità che le ragioni datoriali siano concrete ed effettive (il principio era già stato affermato da una propria precedente sentenza del 29/10/2018, n. 27392).
  3. D’altra parte, il lavoratore deve comunque presentare la richiesta di fruizione delle ferie, affinché il datore di lavoro gli possa concedere di beneficiarne durante il periodo di malattia, valutando il fondamentale interesse del richiedente al mantenimento del posto di lavoro.
    Tale richiesta ovviamente dovrà contenere l’indicazione del momento a decorrere dal quale egli intende ottenere la conversione del titolo dell’assenza (da assenza per malattia ad assenza per ferie), che deve precedere la scadenza del periodo di comporto, dato che al momento di detta scadenza il datore di lavoro acquisisce il diritto di recedere ai sensi dell’art. 2110 c.c., cioè di licenziare il lavoratore.
    È utile in questa sede ribadire che, se è vero che il datore dovrà indicare precisamente, all’atto del licenziamento, quali assenze sono state conteggiate nel calcolo del periodo di comporto, elencando gli episodi di malattia che hanno determinato il superamento del periodo di comporto, non sarà però tenuto a motivare il provvedimento di interruzione del rapporto di lavoro, il quale si giustifica semplicemente richiamando la scadenza del termine.
    L’avvenuto decorso del termine di comporto abilita il datore di lavoro a recedere per tale solo fatto, vale a dire senza che siano necessarie la sussistenza e l’allegazione di ulteriori elementi integranti un giustificato motivo.
  4. Devono ritenersi corrette le motivazioni della Corte di Appello che ha accertato l’avvenuta tempestiva presentazione, dalla lavoratrice, della richiesta di ferie prima della scadenza del periodo di comporto, respinta dalla società datrice senza offrire alcuna prova delle esigenze aziendali a giustificazione del rifiuto, né tanto meno la loro prevalenza rispetto all’interesse della dipendente alla conservazione del posto.

Ipotesi di mobbing

In merito al secondo punto del presente articolo, riguardante il mobbing perpetrato ai danni della lavoratrice, la Cassazione ha nuovamente dato ragione alla dipendente, affermando che:

  1. comportamenti datoriali, concretatisi in continue e pressanti richieste di chiarimenti alla lavoratrice sulle sue assenze per malattia e sulle cure mediche, nella privazione della parte più rilevante delle mansioni al rientro dalla malattia e nella di richiesta di dimissioni respinta dalla medesima dipendente, rientrano tutti nel divieto sancito dall’art. 2087 c.c.
  2. ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assuma di avere subito la condotta vessatoria (quindi dal lavoratore), va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica.

In altre parole, non importa se gli atti sono di per sé legittimi, ciò che conta è che l’adozione degli stessi, da parte del datore di lavoro, vada oltre le finalità per le quali sono stati previsti dalla legge, per il solo scopo di vessare il sottoposto e costringerlo alle dimissioni, facendo “terra bruciata” intorno a lui.

Il fulcro della responsabilità datoriale risiede appunto nella violazione dell’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di tutelare il lavoratore di fronte a tutti i possibili comportamenti lesivi della sua integrità psicofisica, qualunque ne siano la natura e l’oggetto («L’imprenditore è tenuto a adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro [...]»), ben oltre il rispetto della normativa antinfortunistica, essendo lo scopo principale della norma la tutela dei valori della persona.

A seconda delle modalità con cui viene posto in essere il mobbing può produrre un danno patrimoniale e/o un danno non patrimoniale.

Reiterate visite fiscali

In merito alle reiterate visite fiscali richieste dal Dirigente scolastico per verificare le effettive condizioni di salute di una insegnante, è interessante citare l’ordinanza n. 11739/2019 con la quale la Cassazione ha rigettato il ricorso del datore di lavoro, condannato in sede d’appello a risarcire un’insegnante per danno da mobbing, perché la Dirigente scolastica, nonostante la comprovata patologia tumorale della dipendente, aveva inviato troppe visite fiscali, chiedendo ripetutamente spiegazioni in occasione dell’assenza della docente a una sola delle predette visite ispettive (e ha sottoposto l’insegnante a continui controlli, anche durante le ore di lezione, da parte del personale scolastico). Condotte da ritenersi mortificanti per un ‘insegnante capace e apprezzata e quindi meritevoli di risarcimento.

È sicuramente possibile che il datore di lavoro invii più richieste di visite fiscali in più giorni successivi durante l’arco della stessa malattia, quindi relativamente ai giorni coperti dallo stesso certificato medico (l’INPS, infatti, ha istituito il polo unico delle visite fiscali che, dal 2018, permette all’azienda di chiedere un secondo controllo nell’arco della stessa giornata.). Il datore di lavoro, però, può reiterare la richiesta di visite fiscali sempre a condizione che, con ciò, non molesti il lavoratore senza un valido motivo.

Danno patrimoniale e non patrimoniale

Quanto alle ipotesi di danno patrimoniale, lo stesso si concretizza in tutte quelle forme di pregiudizio economico che sono stretta conseguenza delle condotte vessatorie del datore di lavoro (mutamento di mansioni, perdita di indennità ecc.).

Le ipotesi più frequenti di danno patrimoniale da mobbing sono:

  • il danno da demansionamento o dequalificazione professionale o per perdita di professionalità pregressa (si pensi al caso del lavoratore che venga impiegato a fare prevalentemente fotocopie o relegato in un ufficio isolato, svuotando le sue mansioni e privandolo di responsabilità, come nel caso deciso dall’ordinanza della Cassazione che si commenta);
  • il danno emergente (determinato, ad esempio, dalle spese mediche e cure sostenute a causa della malattia psico-fisica ingenerata dagli attacchi mobbizzanti);
  • il danno da lucro cessante (prodotto dai possibili riflessi negativi dovuti alla riduzione della capacità di lavoro, e quindi di produrre reddito, o alla perdita di chances);
  • il danno da licenziamento illegittimo o da dimissioni per giusta causa, quale riflesso del comportamento umiliante subito dal sottoposto (anche esso prontamente riconosciuto dall’ordinanza 10725/2019 alla lavoratrice).

Per quanto riguarda i criteri per la risarcibilità delle suddette voci di danno, laddove sia impossibile una quantificazione precisa (demansionamento, dequalificazione, perdita di ulteriori chances), si procederà ad una liquidazione equitativa, come sancito dall’art. 1226 c.c., utilizzando come parametro una quota della retribuzione per il periodo in cui si è protratta la condotta lesiva.

Del danno non patrimoniale, una considerazione particolare deve essere poi concessa alle voci del danno esistenziale e del danno morale.

Per danno esistenziale si intende il pregiudizio arrecato dall’illecito datoriale alla possibilità del lavoratore di realizzarsi come persona nell’ambiente di lavoro e, conseguentemente, nella vita sociale e familiare. L’individuo danneggiato non è più quello di prima: ha attacchi di collera in famiglia e con gli amici, prova un senso di malessere che gli impone di ripensare i propri spazi e di modificare le proprie abitudini. Ovviamente, come ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 23837/2015, in caso di condotte persecutorie da parte del datore di lavoro, il danno esistenziale al lavoratore non può essere liquidato laddove manchino concreti elementi indicativi di un peggioramento del suo stile di vita. Essendo il danno esistenziale, infatti, legato indissolubilmente alla persona, necessita imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l’alterazione delle sue abitudini di vita.

Il danno morale si ricollega invece ai patimenti e alle sofferenze subite in conseguenza di un reato. Tuttavia, a seguito della pronunce della Corte di Cassazione del 2003 e della Corte Costituzionale, lo spettro di operatività di tale voce di danno è stato ampliato; sicché può parlarsi di danno morale soggettivo – il c.d. pretium doloris – inteso come sofferenza interiore di carattere temporaneo che risulta risarcibile a prescindere dalla commissione di un reato.

Nelle ipotesi di mobbing ci si trova di fronte prima di tutto ad una lesione della personalità della vittima: «la lesione della salute, soprattutto se il bene “salute” viene inteso nel significato più ristretto di violazione dell’integrità psico-fisica, può avere luogo come invece anche non ricorrere [...]. Ciò che invece è sempre presente è la lesione della sfera morale della personalità, della dignità, di quell’interesse a vedere tutelata la propria personalità morale (art. 2087 c.c.)» (Monateri, Accertare il mobbing. Profili giuridici, psichiatrici e medico legali, Giuffrè editore).

È lecita la richiesta di dimissioni?

Nel caso deciso dall’ordinanza della Cassazione n. 10725/2019 il mobbing si è concretizzato, tra l’altro, nella richiesta di dimissioni pretese dal datore di lavoro, ma respinte dalla lavoratrice.

Può il principale pretendere le dimissioni del sottoposto?

Qualora il dipendente abbia commesso una serie di gravi illeciti e violazioni degli obblighi contrattuali (ad esempio ha commesso furto, minacce ai colleghi ecc.) il datore di lavoro può obbligarlo a dimettersi minacciandolo di licenziamento.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7523/2017, statuendo che il lavoratore che non presenta spontaneamente le dimissioni, in un caso così grave, può essere lecitamente minacciato di licenziamento.

In questo caso non è presente nessuna coercizione o intimidazione ingiusta nei confronti del lavoratore e quindi nessun illecito da parte del datore. La condotta illecita si verifica solo se c’è un atto intimidatorio e una violenza psicologica da parte del datore.

C’è da dire però che, se accetta, il lavoratore perde l’indennità di disoccupazione (Naspi), che non viene garantita nel caso di dimissioni volontarie. Resta invece nel caso di licenziamento per giusta causa.

Al di fuori di questa ipotesi, ogni pretesa del datore di lavoro rivolta ad estorcere le dimissioni del lavoratore, si presenta come un atto illecito e, occorrendone i presupposti, un vero e proprio reato.

Si possono registrare le conversazioni?

Il dipendente, per dimostrare che il datore di lavoro lo ha minacciato, umiliato, insultato o che, comunque voglia provare il comportamento mobbizzante del “capo”, può registrare file audio o video e utilizzarli in un eventuale giudizio innanzi al giudice?

A riguardo, l’orientamento prevalente della Corte di Cassazione, intervenuta più volte sul tema, si mostra favorevole all’utilizzabilità delle registrazioni, anche telefoniche, prevedendo, come requisito essenziale, che la registrazione venga realizzata da un soggetto che partecipi effettivamente alla relativa conversazione, senza la necessità di una preventiva autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria, in quanto tali riproduzioni non vengono ritenute contrastanti con la libertà di comunicazione della persona.

Nel caso, perciò, in cui la registrazione venga effettuata da un terzo, risulteranno integrati gli estremi di una vera e propria intercettazione (caratterizzata dall’estraneità al dialogo del captante), pertanto utilizzabile come mezzo di prova soltanto qualora realizzata da un’autorità inquirente, nel rispetto delle relative disposizioni del codice di procedura penale.

I giudici di legittimità hanno inoltre chiarito che, nel caso in cui il datore di lavoro disconosca la conformità ai fatti o alle cose delle registrazioni, quest’ultime risulteranno degradate, da piene prove, a mere presunzioni semplici, con la conseguente necessità di essere avvalorate da ulteriori elementi, anche indiziari. Il disconoscimento, inoltre, dovrà essere «chiaro, circostanziato ed esplicito (dovendo concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta)» (Cass. n. 9526/2010).

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