Sinergie di Scuola

La sentenza della Corte di Cassazione che commentiamo, la n. 18326 del 19/09/2016, ci offre lo spunto per parlare del licenziamento del dipendente pubblico per assenze ingiustificate e, soprattutto, del criterio di proporzionalità della sanzione rispetto al comportamento contestato al lavoratore.

La vicenda prende le mosse dalla pronuncia della Corte di appello di Brescia che, in riforma della sentenza del Tribunale della medesima sede, ha dichiarato illegittimo il licenziamento irrogato ad una dipendente comunale, ai sensi dell’art. 55-quater del D.Lgs. 165/2001 (Decreto Brunetta), per assenza ingiustificata protratta per oltre tre giorni, anche non continuativi.

La Corte, ritenuta necessaria (nonostante la specifica previsione normativa) la verifica della sussistenza degli elementi soggettivi e oggettivi della giusta causa di risoluzione del contratto, ha rinvenuto nella condotta della lavoratrice i profili della buona fede: si trattava infatti di madre di una bambina affetta da handicap, che aveva chiesto – infruttuosamente – la fruizione di un periodo di aspettativa non retribuita (considerato, inoltre, il comportamento dell’ente che non aveva avvertito la lavoratrice dell’esaurimento di tutto l’arco temporale previsto dall’art. 47 del D.Lgs. 151/2001 a titolo di congedo per malattia della figlia).

Il giudice d’appello, in assenza di connotazioni di gravità tali da giustificare la sanzione espulsiva (in pratica ritenendo sproporzionato il licenziamento per punire il comportamento della dipendente pubblica), ha disposto la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro.

Il Comune, proponendo ricorso in Cassazione, si è difeso sostenendo che:

  1. la Corte d’appello ha erroneamente ritenuto che il datore di lavoro avrebbe dovuto, in considerazione del suo potere discrezionale nell’applicazione della sanzione più idonea (cioè meglio proporzionata) a colpire il comportamento illecito del dipendente, rendersi conto della situazione personale della lavoratrice ed escludere la sussistenza della giusta causa di licenziamento. Tale discrezionalità, ha rilevato invece la difesa del Comune, è esclusa dal Decreto Brunetta che, nel caso di assenza ingiustificata protrattasi per oltre tre giorni, attribuisce rilievo pressoché autonomo al dato oggettivo dell’assenza stessa, cui non poteva che conseguire, da parte datoriale pubblica, altra reazione se non quella del provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro;
  2. non esiste l’onere a carico del datore di lavoro di preavvisare tempestivamente la dipendente dell’esaurimento dei giorni di congedo dalla stessa fruibili.

Infrazioni gravi che giustificano il licenziamento

In merito al punto a, la Cassazione ha ricordato che il legislatore del 2009 ha integralmente sostituito l’art. 55 del D.Lgs. 165/2001 inserendo, fra l’altro, l’art. 55-quater nel quale, fermi gli istituti più generali del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, sono state introdotte e tipizzate alcune ipotesi di infrazione particolarmente gravi e, come tali, ritenute idonee a fondare un licenziamento. Tra queste è prevista l’ipotesi dell’assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiori a tre nell’arco di un biennio. L’art. 55-quater, comma 1 dispone, invero, che «Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica comunque la sanzione del licenziamento disciplinare, nei seguenti casi:

[...]

b) assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall’amministrazione».

Si pone, pertanto, il problema di verificare se – una volta accertato che il lavoratore abbia commesso le assenze ingiustificate – il licenziamento sia una conseguenza automatica e necessaria ovvero se l’amministrazione conservi il potere-dovere di valutare l’effettiva portata dell’illecito, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e, quindi, di graduare la sanzione da irrogare, potendo ricorrere a quella espulsiva solamente nell’ipotesi in cui il fatto presenti caratteri propri del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di licenziamento.

Sul piano strettamente letterale, la nuova normativa offre spunti in senso opposto: da una parte, si prevede che si applichi «comunque» il licenziamento ove ricorrano le fattispecie previste ma, dall’altra parte, viene richiamato il generale principio di proporzionalità enunciato dall’art. 2106 c.c. (art. 55, comma 2, primo periodo, D.Lgs. 165/2001) e viene mantenuta «ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo». Ciò significa che (come ritenuto da numerose sentenze) al giudice compete l’esame dei presupposti che giustificano il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo: se il motivo o la causa alla base della sanzione non è giustificabile, vuol dire che il datore di lavoro ha comminato un licenziamento illegittimo.

È indispensabile il procedimento disciplinare

La stessa Cassazione, facendo riferimento alle decisione della Corte costituzionale, ritiene che il datore di lavoro, di fronte alla sanzione del licenziamento del pubblico dipendente (prevista, nel caso di specie, dal Decreto Brunetta), non possa esimersi dall’applicare il procedimento disciplinare al termine del quale, valutate tutte le circostanze del caso concreto, potrà applicare la sanzione espulsiva o, se esiste invece una causa di giustificazione valida del lavoratore (curare la propria figlia può essere una attenuante rispetto alla mancata giustificazione dell’assenza per oltre tre giorni), comminare una sanzione conservativa (censura, sospensione dal lavoro ecc.).

Deve quindi escludersi l’applicazione automatica delle sanzioni disciplinari, ma si deve tenere conto delle eventuali giustificazioni del lavoratore, anche se il testo di legge potrebbe far pensare ad una assenza di discrezionalità in capo alla pubblica amministrazione.

Il Giudice delle leggi, infatti, esaminando diverse disposizioni legislative che prevedevano automatismi espulsivi, ha ritenuto che questi ledano i principi della tutela del lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), del buon andamento amministrativo (art. 97 Cost.) e quelli fondamentali di ragionevolezza (art. 3 Cost. – cfr. Corte Cost. n. 971/1988 e Corte Cost. n. 706/1996 in materia di destituzione di diritto).

In parole più semplici, il Decreto Brunetta prevede sì il licenziamento in caso di assenze ingiustificate, ma non prima di aver verificato, da parte del datore di lavoro (e del giudice, circa l’esame della ragionevolezza e proporzionalità della sanzione rispetto al caso concreto) se ricorrano elementi idonei a “perdonare” e/o “giustificare”, in tutto o in parte, la condotta tenuta dal lavoratore, tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa, cioè sufficienti ad impedire lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Il principio di proporzionalità in altre sentenze

Sempre in tema di proporzionalità tra la sanzione comminata ed i fatti commessi, non si può omettere la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 209 del 9/01/2017, avente ad oggetto il giudizio su un provvedimento del MIUR che aveva escluso definitivamente dall’insegnamento, ai sensi dell’art. 535, punto 6, e dell’art. 537 del D.Lgs. 297/1994, una docente di matematica, condannata, in sede penale, per violenza sessuale verso un alunno.

La ricorrente assume che il giudice non avrebbe fatto corretta applicazione del principio di proporzionalità tra i fatti contestati e la sanzione irrogata, essendoci stato un appiattimento tra la motivazione del provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare e il contenuto della sentenza di patteggiamento. L’avere ritenuto legittima la sanzione più grave, tra quelle previste dal testo unico sull’insegnamento, si pone in contrasto con quanto statuito in sede penale, ove era stata riscontrata un’ipotesi lieve del reato di violenza sessuale, in considerazione dell’assenza di congiunzione carnale, nonché in considerazione della passività delle condotte subite.

La Cassazione ha respinto decisamente questa tesi difensiva, pur premettendo che, in tema di licenziamento per giusta causa, anche in materia di pubblico impiego contrattualizzato (comparto scuola compreso, nda) sia da escludere qualunque sorta di automatismo a seguito dell’accertamento dell’illecito disciplinare, sussistendo l’obbligo per il giudice di valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, e, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta.

Nella specie, la Cassazione ha ritenuto che il giudice d’appello avesse esaminato specificamente la questione della proporzionalità della sanzione affermando, in via preliminare, che il provvedimento del licenziamento non era censurabile, poiché proporzionato rispetto alla grave negazione della funzione educativa nel contegno serbato dall’insegnante.

La Cassazione ha fondato la propria decisione su un principio di buon senso: appare arduo comprendere come sia ipotizzabile (in caso di accoglimento del ricorso) l’eventuale futuro affidamento di minori alla docente, affinché la stessa si occupi della loro istruzione, educazione, vigilanza e custodia.

I comportamenti tenuti si sono connotati per il loro grave disvalore disciplinare morale e sociale, e tanto a prescindere dalla circostanza che, in sede penale, fosse stata ritenuta la sussistenza di una ipotesi di minore gravità, con conseguente diminuzione della pena in misura non eccedente i due terzi.

Poiché il procedimento disciplinare e quello penale sono autonomi, il datore di lavoro può irrogare la sanzione disciplinare espulsiva, cioè la massima sanzione disciplinare, anche se il giudice penale non abbia comminato il massimo della pena, ritenendo non così grave la condotta del reo; di questa “asimmetria” non si può lamentare il lavoratore licenziato (come invece ha fatto in sede di appello).

Ne consegue che un insegnante può essere sanzionato, anche con il licenziamento, anche se il giudice penale abbia ritenuto di lieve entità il reato commesso o le sue conseguenze, o, addirittura, se abbia ritenuto il fatto irrilevante per il diritto penale, purché sia tale da far venir meno la fiducia dell’amministrazione pubblica verso un proprio dipendente e sia stato commesso con dolo o colpa.

Un’ultima sentenza, in merito al licenziamento irrogato per assenze ingiustificate, che è interessante evidenziare, è quella pronunciata da Cassazione, Sez. lavoro, 11/09/2015, n. 17987, che ha ritenuto proporzionato il licenziamento del lavoratore, asserendo che la situazione di “grossa conflittualità” tra le parti del rapporto di lavoro, genericamente asserita dal dipendente assenteista, non può assumere alcun rilievo attenuante, cioè non rende la prestazione lavorativa oggettivamente inesigibile.

La Cassazione ha ribadito l’indirizzo interpretativo secondo il quale la clausola di un contratto collettivo che preveda un certo fatto quale giusta causa o giustificato motivo di licenziamento non esime il giudice dalla valutazione di proporzionalità fra il provvedimento espulsivo adottato dal datore di lavoro e la gravità del fatto addebitato all’incolpato (Cass. 4/02/1983 n. 939, Cass. 2/02/1990 n. 690).

La condotta inconsapevole

Sebbene anteriore alla vigenza del Decreto Brunetta, merita di essere menzionato il caso deciso dal Tribunale di Lecce, con sentenza 31/07/2008, inerente ad un docente di scuola elementare che si era assentato per oltre 15 giorni, senza fornire giustificazione alcuna. Era seguita la dichiarazione di decadenza dall’impiego, contestata dall’insegnante, sul presupposto che l’assenza non era ricollegabile ad un proprio consapevole comportamento, come è stato dichiarato dalla perizia medica.

Questa ha infatti evidenziato che «il comportamento che ha portato il ricorrente ad assentarsi dal servizio a decorrere dal 19-11-2007 è stato provocato da un disturbo psicotico breve che gli ha impedito temporaneamente di effettuare un corretto esame di realtà», onde è lecito dedurre che nel periodo in questione il ricorrente fosse in condizioni assimilabili a quelle di incapace naturale.

Se le assenze sono riconducibili ad una condotta inconsapevole del dipendente, si ricade nel principio già enunciato dalla sentenza della Cassazione n. 18326/2016, in base al quale se ricorrono elementi idonei a giustificare la condotta tenuta dal lavoratore, tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa, non appare proporzionata la sanzione del licenziamento (o, nel caso che ci occupa, della destituzione).

© 2024 HomoFaber Edizioni Srl - Tutti i diritti riservati. Sono vietate la copia e la riproduzione senza autorizzazione scritta. Sono ammesse brevi citazioni ed estratti indicando espressamente la fonte (Sinergie di Scuola) e il link alla home page del sito.