Sinergie di Scuola

L’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970) disciplina la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro, tema di fondamentale importanza nell’ambito delle relazioni sindacali.

La condotta antisindacale è quella che viola i diritti e le prerogative riconosciuti esclusivamente ai soggetti sindacali, anche se l’oggetto della condotta può riguardare la violazione dei diritti dei singoli lavoratori, come nel caso dei licenziamenti di Melfi ad opera di una società del gruppo FIAT.

La difficoltà del datore di lavoro nell’osservare una condotta non antisindacale è sicuramente rinvenibile nel fatto che potenzialmente ogni condotta potrebbe integrare questa fattispecie, a nulla valendo la buona fede o comunque la non intenzionalità. È fondamentale dunque che in materia vi sia sempre la più ampia conoscenza delle norme di legge e di contratto e comunque, secondo buon senso e l’ordinaria diligenza, nella consapevolezza che l’esercizio di un diritto non può comunque rappresentare il sopruso o la sopraffazione di altri diritti parimenti garantiti, quali la conservazione del patrimonio aziendale o l’erogazione dei servizi pubblici essenziali.

Elemento soggettivo e oggettivo

L’art. 28 non fornisce una definizione analitica della condotta antisindacale, tal che sia ben identificabile nelle sue manifestazioni, ma ne rende una rappresentazione finalistica, secondo cui è antisindacale ogni condotta datoriale che sia diretta ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e delle attività sindacali nonché l’esercizio del diritto di sciopero.

La scelta del legislatore è chiaramente permeata dalle forti contrapposizioni esistenti all’epoca nell’ambito delle relazioni sindacali, avvertite in special modo nelle realtà industriali caratterizzate dalle catene di montaggio, dove era maggiormente evidente il potenziale danno alla produzione nell’ipotesi di blocco totale o parziale del lavoro in sequenza. In tal senso l’art. 28 rappresentò sicuramente una conquista da parte delle Organizzazioni sindacali che trovarono riconosciuta dalla norma una definizione “aperta” di condotta antisindacale e non analiticamente tipizzata.

Proprio per questa scelta legislativa l’art. 28 ha trovato una copiosa giurisprudenza che ha sia approfondito i contenuti della condotta che le posizioni dei soggetti della medesima.

La condotta antisindacale può dunque essere integrata sia da comportamenti commissivi (ad es. assunzione temporanea di lavoratori per sostituire gli scioperanti) che omissivi (ad es. non fornire uno spazio aziendale per le riunioni sindacali).

Per quanto riguarda la necessarietà dell’elemento intenzionale da parte datoriale si registrano pronunce discordanti e riconducibili a tre fondamentali scuole di pensiero: una prima prevede sempre come necessaria l’intenzionalità della condotta (ex multis Cass. Lav. 8 febbraio 1985 n. 1005); una seconda la esclude (ex multis Cass. Lav. 3 giugno 1987 n. 4871); una terza invece tende ad escludere l’elemento intenzionale soltanto nei casi in cui la condotta datoriale violi una norma imperativa, richiedendolo invece quando la condotta integri gli estremi dell’abuso del diritto (ex multis Cass. Lav. 13 gennaio 1996 n. 232).

A fondamento delle pronunce che ritengono necessario l’elemento intenzionale sono state fornite sia motivazioni di carattere testuale («[...] comportamenti diretti a [...]»), sia di natura teleologica (la norma è finalizzata ad assicurare il corretto svolgimento delle relazioni sindacali), sia infine di valenza sistematica (l’assenza del dolo o della colpa in capo al datore di lavoro introdurrebbe un’ipotesi di responsabilità oggettiva non tipizzata dalla norma).

La seconda scuola di pensiero trova il fondamento dei propri convincimenti nella circostanza che ciò che rileva ai fini dell’accertamento della condotta antisindacale non è tanto che il datore di lavoro abbia o meno consapevolmente voluto ledere i diritti sindacali, ma che la condotta di questi sia oggettivamente idonea a «impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero».


La terza scuola di pensiero in realtà è un’appendice della seconda, atteso che richiede l’intenzionalità della condotta esclusivamente nelle residue ipotesi in cui la condotta datoriale integri gli estremi dell’abuso del diritto, intendendo con ciò il superamento del cosiddetto limite interno all’esercizio del diritto soggettivo (ad es. l’art. 833 del Codice Civile vieta al proprietario fondiario di compiere atti emulativi, cioè quegli atti che, pur se apparentemente legittimi, in realtà non abbiano altro scopo che quello di recare pregiudizio al proprio vicino).

La giurisprudenza maggioritaria è quella che privilegia l’oggettività della condotta rispetto all’intenzionalità dell’agente.

Il soggetto attivo e passivo

Dalla lettura della norma è inequivocabile individuare il soggetto attivo della condotta nel datore di lavoro, sia esso individuato nella persona del legale rappresentante che di altro soggetto che agisca in nome per conto del datore di lavoro. È però opportuno spendere delle riflessioni sul soggetto passivo della medesima.

Orbene, atteso che la condotta antisindacale integra comunque una condotta illecita datoriale, che potrebbe dunque essere rivolta tanto a limitare i diritti dei singoli lavoratori che delle Organizzazioni sindacali, è doveroso evidenziare che la speciale procedura impugnatoria prevista dall’art. 28, è riservata esclusivamente agli «organismi locali delle associazioni sindacali che vi abbiano interesse».

È chiaro che ciascun soggetto che si ritenga leso nei propri diritti può sempre chiedere l’intervento della magistratura, ma nelle forme ordinarie, non con la procedura speciale prevista dall’art. 28.

Individuati dunque i soggetti passivi della condotta antisindacale prevista dall’art. 28 è necessario poi approfondire chi, concretamente, siano gli organismi locali e le associazioni sindacali che vi abbiano interesse, soprattutto in considerazione che la realtà sindacale è molto cambiata dal 1970 ad oggi.

Se infatti quarant’anni fa la galassia sindacale conosceva, pressoché in via esclusiva,come interlocutori riconosciuti dalle Istituzioni le tre maggiori confederazioni sindacali (CGIL-CISL-UIL), nel corso degli anni sono venuti alla luce nuovi soggetti sindacali, sia essi confederali che di categoria; inoltre si è determinata la consolidazione del fenomeno del cosiddetto sindacalismo di base, quello, in buona sintesi, che a differenza dei sindacati confederali che hanno un’organizzazione verticistica piramidale secondo cui le strategie vengono dettate dall’alto, è organizzato localmente dalla “base”, secondo quella che era l’originaria filosofia dell’attività sindacale portata avanti nei Consigli di fabbrica.

E allora, se non vi sono problemi interpretativi in ordine all’individuazione degli organismi locali (già la Corte Costituzionale con la sentenza n. 57/1974 ebbe ad evidenziare «la razionalità della norma, la quale attribuisce questo mezzo, di per se stesso efficace, ad organizzazioni responsabili che hanno un’effettiva rappresentatività nel campo del lavoro e possono operare consapevolmente delle scelte concrete»), identificati da una giurisprudenza costante nelle strutture sindacali provinciali, quelle a più vicino contatto con le reali condizioni esistenti nei singoli luoghi di lavoro, con esclusione pertanto di una legittimazione ad agire già a partire dalle strutture regionali, o comunque di tutti gli organismi di livello superiore a quello provinciale (cfr. Cass. Sez. un. 17/03/1995 n. 3105), ben più complessa è l’individuazione delle associazioni sindacali nazionali legittimate, con i propri organismi locali, ad agire ex art. 28 legge 300/1970.

La giurisprudenza di legittimità è sempre più orientata a non ritenere quali elementi indicatori dell’essere “associazioni sindacali nazionali” quelli prettamente formali dati dall’assetto organizzativo del Sindacato o dall’essere o meno questi firmatari di Contratti Collettivi.

A contrario l’elemento che sta acquisendo fede privilegiata all’interno delle aule di giustizia è quello della diffusione del sindacato, anche monocategoriale, sul territorio nazionale, dovendosi intendere tale diffusione nel senso della sufficienza di un’effettiva azione sindacale su gran parte del territorio nazionale (ex multis Cass. Sez. un. 21/12/2005 n. 28269; Cass. Sez. lav. 10/01/2005 n. 269).


Come recentemente affermato dalla Cass. Sez. lavoro n. 5209 del 4/03/2010 (che richiama una precedente n. 1307/2006), il carattere nazionale di un’associazione sindacale è un dato relativo non soltanto alla diffusione territoriale del sindacato ma anche alla concreta attività sindacale svolta, che non deve esaurirsi a livello locale ma deve estendersi entro i confini della Nazione, non necessariamente però comprendendo la totalità del territorio.

Il criterio dunque che la giurisprudenza osserva per la valutazione de qua è imperniato su un approccio sostanziale, relativamente all’attività concretamente svolta, e non esclusivamente formale, quale l’assetto organizzativo dell’Organizzazione sindacale. In buona sostanza non vige alcuna presunzione legale sul grado di rappresentatività di un sindacato ma questa deve essere accertata caso per caso dal Giudice; è parimenti chiaro però che un Sindacato organizzato su di un modello confederale o multi categoriale con sedi in ogni Provincia e Regione fornirà sicuramente, sulla carta, maggiori indizi di rappresentatività rispetto ad altra organizzazione ad esempio monocategoriale diffusa non su tutto il territorio.

In senso contrario, e per una giurisprudenza in via d’estinzione, il requisito della nazionalità veniva ancorato all’essere o meno firmatari di Contratti Collettivi di lavoro, ovvero all’essere o meno il Sindacato presente con proprie strutture in ogni settore commerciale e industriale. Criteri questi cui chiaramente i sindacati di base non erano in grado di fornire positiva risposta.

Peraltro, e a conferma dell’approccio sostanziale sopra evidenziato, atteso che il più grande sindacato confederale non risulta essere più firmatario di taluni CCNL (si pensi all’industria metalmeccanica), pensare di voler ancorare la verifica del requisito della nazionalità all’essere o meno sottoscrittore di Contratto nazionale sarebbe quanto meno anacronistico.

Casi pratici di carattere generale

Rammentato che l’art. 28 non fornisce una tipizzazione delle ipotesi di condotta antisindacale forniamo una casistica di matrice giurisprudenziale.

Molti dei diritti sindacali che possono essere oggetto di condotta antisindacale sono rinvenibili nella stessa legge 30/1970, e così per quanto attiene al diritto di assemblea ex art. 20, al diritto di referendum ex art. 21, all’obbligo di ottenere il nulla osta dell’organizzazione sindacale di riferimento per lo spostamento dei dirigenti delle RSA, al diritto di fruire dei permessi sindacali retribuiti o meno ex artt. 23-24, al diritto di affissione ex art. 25 ovvero al diritto di effettuare proselitismo sindacale ex art. 14.


Altre ipotesi di diritti lesi da condotta antisindacale sono rinvenibili nei Contratti nazionali di lavoro (si pensi agli obblighi di informazione, concertazione e contrattazione).

Casi più particolari sono rappresentati ad esempio dal rifiuto datoriale di effettuare le trattenute in busta paga delle quote associative sindacali. Una recente sentenza della Corte di Cassazione sez. lavoro, n. 2314 del 17/02/2012, rammentato che, a seguito dell’abrogazione con referendum dell’art. 26 dello Statuto, non è stato posto il divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, ma ne è soltanto venuto meno l’obbligo, ha condannato un datore di lavoro per condotta antisindacale per il rifiuto opposto ad effettuare le trattenute di che trattasi.

La Suprema Corte in particolare, posto che la richiesta effettuata dai lavoratori al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi da accreditare al sindacato cui aderiscono rende noto a questi l’intervenuta cessione di quota parte del credito retributivo vantato in favore del sindacato, ha censurato la condotta datoriale atteso che detta cessione, ai sensi dell’art. 1260 del Codice Civile, non necessita del consenso del debitore.

Pertanto il datore di lavoro che, in presenza di un atto di cessione del credito relativo alle quote associative sindacali, rifiuti senza giustificazione (ad esempio l’eccessiva onerosità dell’operazione) di effettuare il versamento, configura un inadempimento sia di natura civilistica che integrativo di una condotta antisindacale che pregiudica tanto il diritto dei singoli di scegliere liberamente il sindacato cui aderire che il diritto del sindacato di acquisire dai propri iscritti i mezzi di finanziamento necessari per l’espletamento della propria attività.

È opportuno infine rammentare le recenti pronunce dei Giudici lucani (Tribunale di Melfi e Corte d’Appello di Potenza) che sono stati interessati dal ricorso per condotta antisindacale rappresentata dal licenziamento di tre lavoratori (di cui due dirigenti sindacali ed un semplice iscritto al Sindacato ricorrente).

Questo tema, di grande attualità anche per il grande pubblico, è quello che maggiormente evidenzia quanto si diceva in premessa: la condotta antisindacale può anche riguardare la violazione di diritti dei singoli allorché venga posta in essere nell’ambito di un più ampio conflitto che investe l’esercizio dei diritti sindacali.

La querelle tra Azienda e Sindacato è stata da ultimo risolta dalla Corte d’Appello potentina in senso favorevole al Sindacato; il datore di lavoro ha dunque trovato l’ordine di rimuovere gli atti integranti la condotta antisindacale, tra cui, principalmente, la revoca dei licenziamenti irrogati.

Orbene, atteso che l’Azienda, per una propria decisione, ha deciso di eseguire l’ordine del Giudice invitando i lavoratori a rimanere a casa e a non eseguire la prestazione lavorativa, pagando comunque loro lo stipendio, il Giudice adito ex art. 28 se per l’effetto ha ordinato la revoca dei licenziamenti, non ha però disposto alcunché in ordine alle conseguenze civili di una tale decisione, e ciò per l’ovvia considerazione che l’art. 28 disciplina esclusivamente la procedura di repressione della condotta antisindacale, non anche le eventuali conseguenze che questa possa aver determinato (ad es. profili risarcitori derivati).

In questo contesto, dunque i lavoratori, ove decidano, come hanno fatto, di ottenere giustizia in ordine ai propri diritti lesi, non avranno altra strada che quella di proporre autonomo ricorso individuale al Giudice del Lavoro. La particolarità del caso è che il Giudice del Lavoro non è assolutamente vincolato nelle proprie decisioni da quanto in precedenza statuito dal Giudice della condotta antisindacale.

E nella scuola?

Esaminando più da vicino i casi che riguardano il mondo della scuola si deve registrare una recente e copiosa giurisprudenza, che per lo più tende ad escludere la condotta antisindacale, in materia di ricorsi ex art. 28 legge 300/1970 aventi ad oggetto la violazione dell’art. 6 CCNL Scuola 2006-2009 (in particolare le lettere h, i ed m).


In buona sintesi molti Dirigenti scolastici sono stati chiamati a rispondere di un’asserita condotta antisindacale per aver dato una semplice informativa alle Organizzazioni Sindacali sulle materie previste dall’art. 6 citato – giusta previsione del decreto Brunetta – in luogo della prevista procedura negoziale.

Ricordiamo che il decreto Brunetta ha previsto la contrattazione integrativa esclusivamente in materia di trattamento economico fondamentale ed accessorio, non anche sulle materie che attengono all’organizzazione del lavoro.

La problematica nasce in ordine alla applicabilità immediata, ovvero differita, della riforma Brunetta (D.Lgs. 150/2009) con riferimento alle norme che disciplinano gli obblighi di informazione, concertazione e contrattazione, e ciò a cagione della circostanza che la previsione dell’art. 65 comma 5 del D.Lgs. 150/2009, secondo cui «le disposizioni relative alla contrattazione collettiva nazionale di cui al presente decreto legislativo si applicano dalla tornata successiva a quella in corso», parrebbe smentita, o comunque contraddetta, dall’art. 9 comma 17 del decreto legge 78/2010, convertito con modificazioni dalla legge 122/2010, in base al quale è stato disposto il blocco dei rinnovi contrattuali per il triennio 2010/2012.

Per dirimere i citati conflitti interpretativi l’art. 5 del D.Lgs. 141/2011 ha fornito un’interpretazione autentica dell’art. 65 del D.Lgs. 150/2009, secondo cui

«l’art. 65 comma 5 del D.Lgs. 150/2009 si interpreta nel senso che le disposizioni che si applicano alla tornata contrattuale successiva a quella in corso al momento dell’entrata in vigore dello stesso decreto sono esclusivamente quelle relative al procedimento negoziale di approvazione dei contratti collettivi nazionali [...]».

Quindi dal 1/01/2011 le previsioni della contrattazione integrativa difformi dalle previsioni legislative sono da ritenersi inapplicabili.

L’art. 6 del CCNL Scuola 2006-2009 è sicuramente quello che maggiormente si presta a fornire ipotesi di condotta antisindacale da parte dei Dirigenti scolastici, e ciò non esclusivamente a causa degli evidenziati problemi interpretativi determinati dalla riforma Brunetta.

Una recente pronuncia del Tribunale di Treviso (decreto ex art. 28 legge 300/1970 del 12/01/2012) ha accertato come antisindacale la condotta di un Dirigente scolastico che aveva omesso, nonostante reiterate richieste, di fornire informazioni in ordine all’impiego del Fondo d’Istituto, ed in particolare circa: 1) l’indicazione analitica dei nominativi dei lavoratori che avevano trovato liquidati dei compensi di produttività; 2) le attività singolarmente svolte; 3) i singoli impegni orari.

Il Dirigente scolastico a propria difesa sosteneva che le richieste del Sindacato non potevano essere soddisfatte poiché la tutela della privacy dei lavoratori era un diritto riconosciuto da una norma di rango superiore rispetto alla previsione dell’art. 6 CCNL (in particolare la lett. n prevede essere materia di informazione successiva ai Sindacati fornire «i nominativi del personale utilizzato nelle attività e i progetti retribuiti con il fondo d’istituto»; mentre la successiva lett. o prevede sempre come materia d’informazione successiva «la verifica dell’attuazione della contrattazione collettiva integrativa d’istituto sull’utilizzo delle risorse»).

Il Giudice trevigiano non ha ritenuto fondata la difesa scolastica poiché lo stesso Garante della privacy, avuto riferimento all’art. 19 comma 3 del D.Lgs. 196/2003 (Codice della Privacy), secondo cui «La comunicazione da parte di un soggetto pubblico a privati o a enti pubblici economici e la diffusione da parte di un soggetto pubblico sono ammesse unicamente quando sono previste da una norma di legge o di regolamento», all’art. 2.3 delle Linee guida in materia di trattamento di dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico, ha previsto che, oltre alle leggi e ai regolamenti, anche i Contratti collettivi, nazionali e integrativi, possono contenere previsioni che permettono di trattare e comunicare lecitamente alla Organizzazioni sindacali informazioni di natura personale. Inoltre, all’art. 5.2 delle suddette Linee guida, il Garante consente che l’informazione sindacale abbia ad oggetto anche dati nominativi del personale per verificare la corretta attuazione di taluni atti organizzativi e la corretta erogazione di trattamenti economici accessori, ove sia previsto dalla contrattazione collettiva.

Considerazioni finali

Uno dei temi più dibattuti sulle misure da adottare per permettere la ripresa economica del Paese è quello sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970), la norma che attribuisce il diritto alla reintegra sul posto di lavoro (nelle aziende con più di 15 dipendenti) al dipendente illegittimamente licenziato.

Un tema però che abbiamo visto non esser patrimonio esclusivo dell’ormai celeberrimo art. 18. Non vogliamo fare l’apologia dell’attività sindacale, ma chiudiamo con una provocazione: e se ogni lavoratore fosse un dirigente sindacale o comunque dedito ad attività sindacale?

E, per inciso, «La legge 20 maggio 1970, n.300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti» (art. 51 co. 2 D.Lgs. 165/2001 e s.m.i.).

(Le considerazioni qui esposte sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza)

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