Sinergie di Scuola

Nel mese di novembre, in Spagna, una confederazione di associazioni che raccolgono complessivamente oltre 12.000 genitori ha indetto uno “sciopero nazionale dai compiti del fine settimana”.

Gracia Escalante, mamma di due alunni e assistente sociale, ha spiegato al quotidiano inglese The Telegraph alcune delle ragioni alla base della protesta: «La mia famiglia ha partecipato allo sciopero perché anche noi, come tanti altri, siamo assolutamente convinti che il sistema dei compiti a casa in Spagna sia palesemente inefficiente e socialmente divisivo».

Una parte degli insegnanti ha sostenuto lo sciopero. Alvaro Caso, che non assegna compiti per casa ai propri alunni, ne chiarisce le ragioni in un’intervista alla BBC: «I bambini passano molto tempo a scuola, e sono già sufficientemente impegnati durante il giorno. Se l’insegnante fa bene il suo lavoro, non c’è bisogno di aggiungere carichi di lavoro ulteriori – almeno nel ciclo della scuola primaria».

L’ex ministro dell’istruzione, oggi portavoce del governo spagnolo Iñigo Méndez de Vigo, ha definito “sbagliato” lo sciopero; e tuttavia, ha aggiunto che il tema entrerà nel dibattito sul nuovo patto dell’istruzione, che il governo intende portare a breve in Parlamento. Nel frattempo, alcuni dei governi regionali della Spagna, tra cui quello della capitale Madrid, hanno approvato una serie di raccomandazioni per ridurre il carico di lavoro a casa degli studenti.

Entrambi i due fronti pro e contro citano i dati PISA (il 6 dicembre saranno resi pubblici quelli dell’ultima rilevazione), secondo i quali i quindicenni spagnoli dedicano ai compiti più tempo della media OCSE (8 ore medie settimanali contro quasi 6). Con quali risultati? Per le rilevazioni PISA, ogni ora settimanale dedicata ai compiti a casa garantisce risultati di 4,5 punti in più in matematica e comprensione dei testi, e 4,3 in scienze.

Tuttavia, gli spagnoli restano sul fondo delle classifiche PISA. Ciò sembra suggerire che passare più tempo sui libri a casa non si traduca automaticamente in un rendimento migliore, almeno nell’ambito di questi confronti; ma, come affermano i favorevoli, ridurre il numero di ore abbasserebbe ulteriormente i risultati. Più probabilmente, si tratta della qualità dei compiti a casa: si può serenamente ammettere che alcuni modelli siano più efficaci di altri, e accettare che, oltrepassata una certa soglia, lo studente raggiunge un punto di “saturazione” che induce alla noia, alla stanchezza e alla frustrazione per il poco tempo da dedicare a sé e agli affetti familiari.

Harris Cooper, ricercatore presso la Duke University, nel 2006 condusse un’approfondita analisi sulla relazione tra i risultati degli studenti e i compiti svolti a casa. Tale relazione era chiaramente positiva, ma lo studio verificò che ciò era vero più nella scuola secondaria che nella primaria. Cooper suggerì la regola dei “10-20 minuti”: per ogni anno di scuola non si dovrebbero aggiungere più di 10 minuti al tempo da dedicare ai compiti. Secondo questo schema, un bambino in prima elementare impegnerebbe 10 minuti, un ragazzo al primo anno di superiori circa un’ora e mezza. Il problema con questo approccio è che non tutti gli studenti impiegano lo stesso tempo a parità di esercizi...

Quello che però non viene colto in questi studi, e che l’OCSE invece riconosce, è l’impatto delle condizioni sociali, culturali ed economiche delle famiglie, che si riverbera sull’efficacia del tempo dedicato allo studio a casa: quello che manca, troppo spesso, è uno spazio dedicato e tranquillo; il tempo necessario (perché bisogna aiutare in casa, o perché si è sballottati continuamente tra genitori separati e distanti); qualcuno in famiglia che sia in grado di aiutare nello studio. E persino in presenza di connessioni a Internet, si è osservato che esiste un digital divide tra gli studenti, basato sullo status socio-economico: i più “fortunati” usano infatti la rete anche per lo studio e l’arricchimento culturale; gli altri prevalentemente per chattare.

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