Sinergie di Scuola

Il 28 giugno 2018 l’ANAC ha pubblicato sul sito web istituzionale il terzo rapporto annuale sul whistleblowing.

L’istituto, ricordiamo brevemente, è stato introdotto dalla Legge 190/2012, che ha configurato, dapprima solo per i pubblici dipendenti, la figura del c.d. “whistleblower” (letteralmente, “suonatore di fischietto”). La legge recepiva le prescrizioni di convenzioni internazionali e del Consiglio d’Europa, e introduceva l’art. 54-bis nel D.Lgs. 165/2001, prevedendo la tutela per il pubblico dipendente che denunciava condotte illecite cui fosse venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro mettendolo al riparo da misure discriminatorie dirette o indirette.

La normativa è stata poi integrata da interpretazioni istituzionali, tra cui le Linee Guida ANAC del 2015, pubblicate con determinazione 6/2015; recentemente, la disciplina è stata riformatacon la Legge 30/11/2017, n. 179.

La legge di riforma, principalmente, ha esteso la disciplina al settore privato, e, per quanto riguarda il settore pubblico, ha innovato profondamente l’art. 54-bis citato, ampliando la platea dei destinatari delle denunce all’ANAC e specificando meglio le forme di tutela, dando l’avvio ad ulteriori strumenti per facilitare le denunce. Dal febbraio 2018, infatti, l’ANAC ha attivato una apposita applicazione informatica per il whistleblowing, che permette di segnalare condotte anomale tramite una rete protetta dall’anonimato.

La legge di riforma prevede l’adozione di sanzioni tra 5.000 e 50.000 euro, a carico di chi contravvenga alle cautele nei confronti del segnalante (con misure discriminatorie, assenza di procedure per la gestione delle segnalazioni, mancato svolgimento di verifica e analisi nei confronti delle stesse), e la garanzia della reintegrazione sul posto di lavoro, in caso di licenziamento che abbia causa nella segnalazione; restano ferme tuttavia le responsabilità in ipotesi di reato come la calunnia, la diffamazione, o comunque la responsabilità con dolo o colpa grave. Viene poi integrata la disciplina del segreto (di ufficio, aziendale, professionale e industriale), e prevista la giustificazione dalle segnalazioni o denunce nell’interesse dell’integrità delle amministrazioni, a meno che l’obbligo di segreto riguardi chi è legato da un rapporto di consulenza e/o assistenza con l’amministrazione. Le modalità di segnalazione debbono essere, in caso di segreto, più attente e non eccedenti le finalità e i canali regolati dalla disciplina.

Le valutazioni dell’ANAC

Con la pubblicazione del terzo rapporto annuale, sopra citato, l’ANAC dà conto, tramite una serie di tabelle esplicative, dell’aumento delle segnalazioni costante negli anni; le stesse sono più o meno equilibrate tra Nord, Centro e Sud (rimanendo maggiori al Sud), e maggiormente incentrate su casi di presunte condotte punitive, quali i trasferimenti a seguito di segnalazioni.

In netta maggioranza, le segnalazioni, durante il periodo di riferimento, sono pervenute da Regioni ed Enti locali, ma anche gli Istituti scolastici, al secondo posto, hanno manifestato un incremento nell’utilizzo dello strumento.

Il rapporto evidenzia tra le criticità quanto poi manifestato anche dalle prime interpretazioni giurisprudenziali sul punto, di seguito riportate, ovvero i vari casi di utilizzo improprio delle segnalazioni, dovute a difficoltà di approfondimento, quindi a mancanza di conoscenza dell’istituto, che determina anche una “scarsa qualità” delle segnalazioni stesse.

Il rapporto evidenzia, a ben vedere, difficoltà che sono oggettive per la natura stessa dello strumento, che si presta non solo al rischio di integrare gli estremi di denuncia e diffamazione, ma anche alle difficoltà connesse ad un anonimato che, di fatto, può risultare estremamente labile, e all’inquadramento dell’istituto la cui differenza tra le altre ipotesi, quali il mobbing e le condotte antisindacali, ad esempio, non è agevole.

Due pronunce recenti possono meglio far comprendere tali difficoltà di inquadramento e di utilizzo.

Le interpretazioni giurisprudenziali

Si segnalano pochi interventi della giurisprudenza sul tema, accomunati, peraltro, dalla definizione restrittiva dei confini dell’istituto, cosa che pone, forse, dei dubbi sulla “convenienza” del ricorso all’istituto.

Il TAR Campania, con la pronuncia n. 3880 dell’8/06/2018, è intervenuto sul ricorso, per l’annullamento di provvedimenti inibitori della richiesta di accesso, presentato da una Dirigente scolastica nei confronti del MIUR – Ufficio Scolastico per la Campania; l’accesso era stato richiesto a seguito di una denuncia, presentata da una dipendente, avente per oggetto accuse di mobbing e bossing da parte della stessa dirigente, e cui, peraltro, era seguita un’ispezione.

La parte interessante della sentenza è quella che si incentra proprio sulle tutele garantite dal whistleblowing; la parte resistente, in sede difensiva, aveva infatti affermato che la materia esulava dalla disciplina di cui alla Legge 241/1990, disciplinante l’accesso agli atti, rientrando invece nell’ambito dell’art. 54-bis del D.Lgs. 165/2001, di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti.

Il giudice amministrativo smentisce questa ricostruzione, arrivando ad accogliere il ricorso, rammentando che il whistleblowing è fattispecie diretta a tutelare il denunciante principalmente nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione. Viceversa, nel caso in esame, il giudice amministrativo sostiene che quanto segnalato «oltretutto non è stato inviato ad alcuna delle autorità indicate nell’articolo 54-bis»; la denunciante «non ha agito a tutela dell’interesse all’integrità della pubblica amministrazione ma a tutela dei diritti nascenti dal proprio rapporto di lavoro asseritamente lesi dalla ricorrente nel contesto di una annosa situazione di contrasto che la vede opposta a quest’ultima; in sostanza l’esposto in questione si inserisce in una “ordinaria” controversia di lavoro; se ogni denuncia di violazione dei diritti di lavoratori scaturita da situazioni di conflitto con i superiori fosse ascritta alla fattispecie del whistleblowing (che nasce, anche storicamente, da esigenze di contrasto di fenomeni corruttivi) e di conseguenza i relativi atti fossero sottratti ad accesso ne deriverebbe una irragionevole compressione del diritto di accesso ai documenti che costituisce principio generale dell’attività amministrativa [...]. In definitiva l’istituto del whistleblowing non è utilizzabile per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori. Questo tipo di conflitti infatti sono disciplinati da altre normative e da altre procedure».

In tempi ancor più recenti, la Corte di Cassazione, in proposito di una segnalazione scaturita anche da quanto appreso tramite accesso ai sistemi informatici con credenziali altrui, con la sentenza n. 35792 del 26/07/2018, ricorda come l’istituto «si limiti a scongiurare conseguenza sfavorevoli, limitatamente al rapporto di impiego, per il segnalante che acquisisca, nel contesto lavorativo, notizia di un’attività illecita, mentre non fonda alcun obbligo di attiva acquisizione di informazioni, autorizzando improprie attività investigative, in violazione dei limiti posti dalla legge». La Corte giunge a ritenere non scusabile l’errore sull’esistenza di un dovere informativo che, come nel caso esaminato, giunga a comprendere l’indebito utilizzo di credenziali di accesso non proprie ad un sistema protetto da parte di un soggetto non legittimato. «In tema di agente provocatore» continua la Corte «è giustificata solo la condotta che intervenga in modo indiretto e marginale, concretizzandosi prevalentemente in un’attività di osservazione, di controllo e di contenimento delle azioni illecite altrui».

Attenzione quindi, nell’utilizzo dello strumento, a non svolgere attività investigative improprie, e a non confondere la segnalazione con altri strumenti quali la denuncia per mobbing; le conseguenze, nel caso di utilizzo improprio del whistleblowing, possono essere severe.

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