Sinergie di Scuola

L’ingiuria è un reato che offende l’onore e il decoro di un individuo (l’onore attiene alle qualità che concorrono a determinare il valore di un individuo, mentre il decoro concerne il rispetto o il riguardo di cui ciascun essere umano è comunque degno), e si distingue dalla diffamazione, che mira a punire chi abbia leso la reputazione (cioè il “valore sociale”) di un’altra persona; in particolare, nell’ingiuria il soggetto leso è presente nel momento in cui viene effettuata l’offesa, mentre nel caso della diffamazione la lesione dell’altrui reputazione avviene in assenza della “vittima” (es. se denigro un collega durante un consiglio di classe nel quale è assente, commetto il reato di diffamazione; se fosse presente alla riunione commetterei il reato di ingiuria).

Non è raro apprendere dai mezzi di informazione, o lavorando in una scuola, che un professore sia stato insultato da un alunno o da un collega o, talvolta, dallo stesso Dirigente scolastico.

Dall’esame delle sentenze intervenute in materia si possono trarre alcuni spunti di riflessione interessanti.

Quando c’è reato di ingiuria

Innanzitutto, ci si può domandare se ogni espressione astrattamente offensiva (si pensi ad un insulto o ad una parolaccia) è in concreto idonea ad essere punita come ingiuria (o diffamazione).

Come affermato dalla Cassazione nella sentenza del 17/10/2011, n. 37380, «il giudizio sulla lesione effettiva di detti beni [cioè dell’onore e del decoro di una persona, n.d.a.] non può pertanto prescindere dal considerare se, rispetto all’ambiente nel quale una determinata espressione è proferita, la stessa si limiti alla pur aspra critica di un’opinione non condivisa ovvero trasmodi nello squalificare la persona appena indicata»

Quindi, i parametri da considerare sono senz’altro due:

Il contesto dell’offesa

Nel caso esaminato dalla Cassazione n. 37380/2011, l’espressione oltraggiosa era stata pronunciata da un Dirigente scolastico all’indirizzo di un professore durante un consiglio di istituto: in tale consesso di educatori non possono tollerarsi espressioni che in altre circostanze e luoghi sarebbero per lo più perdonabili (si pensi ad un talk-show o ad una riunione condominiale). 

Proprio in virtù di questo principio, con la sentenza della Cassazione n. 33084/2006 era stato condannato un docente che aveva aspramente criticato un collega, per avere questo ultimo chiamato i carabinieri poiché una collaboratrice scolastica aveva smarrito il cellulare. La condanna inflitta dalla Suprema Corte si è basata sulla circostanza che,  specialmente in una organizzazione complessa come la scuola, ove le azioni di un docente hanno riflessi sulla scolaresca, sui genitori e sul progetto educativo, sono ben possibili opinioni diverse, ma il confronto, anche brusco, tra le diverse opinioni deve avvenire in termini corretti senza inutili attacchi ingiuriosi alla persona del contraddittore.

In certi ambienti, pertanto, una parola può essere offensiva, mentre, se pronunciata in altri contesti, risultare “innocua”.


La finalità dell’espressione ingiuriosa

Se la frase oltraggiosa è intesa ad umiliare e squalificare la persona in quanto tale, certamente questo comportamento integra gli estremi dell’ingiuria (o della diffamazione); se invece con essa si critica, seppur con modi poco urbani, una opinione non condivisa, ma non colui che l’ha espressa, si rientra nel diritto di critica, il cui esercizio è tutelato dall’art. 21 della Costituzione.

Per essere più precisi, utilizzando le parole della sentenza della Cassazione n. 185/1998, «affinché una doverosa critica da parte di un soggetto in posizione di superiorità gerarchica ad un errato o colpevole comportamento, in atti di ufficio, di un suo subordinato, non sconfini nell’insulto a quest’ultimo, occorre che le espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del comportamento stesso, chiariscano i connotati dell’errore, sottolineino l’eventuale trasgressione realizzata. Se invece le frasi usate, sia pure attraverso la censura di un comportamento, integrino disprezzo per l’autore del comportamento, o gli attribuiscano inutilmente intenzioni o qualità negative e spregevoli, non può sostenersi che esse, in quanto dirette alla condotta e non al soggetto, non hanno potenzialità ingiuriosa» (Cass., Sez. I, n. 185/1998, Rv. 209439).

La mancanza di parità tra docente e preside, essendo questo ultimo gerarchicamente sovraordinato al primo, colora di un particolare significato offensivo anche espressioni non particolarmente grevi, purché denotino un atteggiamento di mortificazione del sottoposto. I Dirigenti scolastici, pertanto, dovrebbero “calibrare al millimetro” i loro interventi critici nei confronti del personale scolastico.

È paradigmatica la sentenza della Cassazione, Sez. V, 27/06/2011, n. 25611 chiamata a verificare la corretta applicazione delle norme penali al comportamento di un docente che, durante un collegio dei docenti, nell’ambito di un vivace diverbio, aveva apostrofato la collega come «prevaricatrice», «maleducata», «priva di dignità». I giudici hanno ritenuto tali espressioni offensive, indubbiamente e chiaramente lesive del prestigio professionale, della dignità e del decoro della parte offesa, poiché, a parere di chi scrive, dirette a umiliare e denigrare la professoressa in quanto essere umano e non il suo pensiero attraverso una critica pacata e obiettiva.

Registrazione delle conversazioni

Per provare innanzi ad un giudice gli insulti ricevuti dal Dirigente scolastico o dal collega, si possono registrare di nascosto le frasi ingiuriose?

Numerose sentenze della Cassazione (v., per tutte, le n. 7239/1999 e 36747/2003) confermano che la registrazione (anche segreta) di un colloquio con un terzo non costituisce reato, se viene realizzata da colui che partecipa alla conversazione

Al contrario, non è utilizzabile se un estraneo abbia captato le conversazioni altrui. 

«La comunicazione, una volta che si è liberamente e legittimamente esaurita, senza alcuna intrusione da parte di soggetti ad essa estranei», afferma la Cassazione, «entra a fare parte del patrimonio di conoscenza degli interlocutori e di chi vi ha non occultamente assistito, con l’effetto che ognuno di essi ne può disporre».

La registrazione del colloquio può, ad avviso dei supremi giudici, rappresentare una forma di autotutela e garanzia per tutelarsi da prepotenze, minacce, insulti e ricatti, ed è legittima l’utilizzazione, nel processo, del contenuto di una conversazione privata (tra presenti) registrata su nastro magnetico da parte di uno degli interlocutori (Cass., Sez. I, 8/06/1999, n. 7239).

Nello stesso senso si è pronunciata Cassazione n. 18908 del 13/05/2011, stabilendo la liceità delle registrazioni audiovisive di conversazioni tra soggetti presenti e in mancanza di destinazione delle stesse alla diffusione per scopi diversi dalla tutela di un diritto proprio, come potrebbe essere il diritto all’onore del soggetto offeso. 


Se durante una lite il docente offeso accusa un malore

Il caso è stato affrontato e risolto sempre da Cass. n. 25611/2011, che ha ritenuto responsabile l’autore degli epiteti ingiuriosi dello stress emotivo causato alla collega offesa, che avevano cagionato a questa ultima un rialzo brusco della pressione, con conseguente emorragia cerebrale, con esiti protrattisi per oltre 40 giorni. Ciò perché il codice penale prevede che «Quando da un fatto preveduto come delitto doloso [in questo caso l’ingiuria, n.d.a.] deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, [...] la lesione di una persona [le lesioni celebrali descritte, n.d.a.]», di tali danni ne deve rispondere l’autore del fatto illecito.

Ai due parametri sopra elencati se ne può aggiungere un terzo, come evidenziato dalla giurisprudenza costante: l’obiettiva capacità offensiva del termine e il significato socialmente condiviso delle parole.

Non ogni espressione greve o sprezzante che crei disappunto è automaticamente punita dal codice penale, non essendo parametrabile la sanzione giuridica alla sensibilità del soggetto che si senta offeso. Come giustamente statuito da Cass. Pen., Sez. V, nella sentenza 16 febbraio – 14 marzo 2011, n. 10188, ciò che rileva, infatti, è la oggettiva capacità di offendere, da giudicarsi in base al significato attribuibile alle espressioni utilizzate.

Non integra il reato di ingiuria l’utilizzo, in determinati contesti, di parole o frasi che, pur rappresentative di concetti osceni, sono ormai diventati di uso comune, perdendo la loro portata offensiva specialmente se profferite in un discorso tra soggetti in posizione di parità (v. Cass. Pen., Sez. V, sentenza 29 ottobre 2009 – 28 gennaio 2010, n. 3931).

Si ponga attenzione al pronunciamento della Sez. V penale della Cassazione che, dopo aver precisato: «al fine di accertare se l’espressione utilizzata sia idonea a ledere il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 594 del Codice Penale occorre fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alle personalità dell’offeso e dell’offensore nonché al contesto nel quale detta espressione sia stata pronunciata ed alla coscienza sociale», ha ritenuto priva di rilevanza offensiva l’espressione «siete venuti a rompere le scatole» proferita nel contesto di un vivace scambio verbale tra professoresse (Cass., Sez. V, sentenza n. 39454/2005, Pres. Lattanzi, est. Pizzuti).

Le sanzioni disciplinari

In caso di reato di ingiuria, oltre alle ovvie conseguenze penali, vi sono anche quelle disciplinari.

Il professore che sia stato aggredito verbalmente dal collega, o i genitori dell’alunno offeso dall’insegnante, dovranno darne immediata notizia al Dirigente scolastico, in modo che questo ultimo avvii il provvedimento disciplinare verso l’autore delle ingiurie. La dirigenza scolastica procederà, preliminarmente, alla contestazione degli addebiti da effettuare con le modalità previste dall’art. 55-bis, comma 2, D.Lgs. 165/2001:

  • senza indugio e comunque non oltre venti giorni, il Dirigente scolastico contesta per iscritto l’addebito al dipendente accusato del reato di ingiuria, convocandolo, con un preavviso di almeno dieci giorni, per il contraddittorio a sua difesa, con l’eventuale assistenza di un procuratore ovvero di un rappresentante dell’associazione sindacale cui il lavoratore aderisce o conferisce mandato;
  • nella lettera di contestazione si devono descrivere i fatti come appresi dal Capo d’istituto, senza darli per provati o esprimere giudizio anticipato sugli stessi;
  • entro il termine fissato, il dipendente convocato, se non intende presentarsi, può inviare una memoria scritta o, in caso di grave ed oggettivo impedimento, formulare motivata istanza di rinvio del termine per l’esercizio della sua difesa (in caso di differimento superiore a dieci giorni del termine a difesa, per impedimento del dipendente, il termine per la conclusione del procedimento è prorogato in misura corrispondente);
  • dopo l’espletamento dell’eventuale ulteriore attività istruttoria, il responsabile della struttura conclude il procedimento, con l’atto di archiviazione o di irrogazione della sanzione, entro sessanta giorni dalla contestazione dell’addebito.

È utile evidenziare che, come è stato giustamente rilevato nel forum ANP Piemonte:

- il dirigente chiamerà ad assistere all’audizione uno dei propri collaboratori (per evitare di essere “solo contro due” nel corso della discussione, se il docente viene con l’avvocato), oltre il DSGA o un assistente amministrativo per verbalizzare l’audizione. Il verbale va redatto contestualmente e sottoscritto da tutti i presenti. Se qualcuno si rifiuta, deve indicarne i motivi. Del rifiuto e dei motivi addotti si dà atto nel verbale stesso a firma degli altri;
- il dirigente aprirà l’audizione dando lettura della lettera di contestazione e chiedendo al dipendente cosa ha da dire a propria difesa. Ascolterà, per quanto possibile, senza rispondere o controbattere e comunque senza instaurare un battibecco. Al termine, chiederà esplicitamente se vuole aggiungere altro e si riserverà di valutare e prendere le proprie decisioni;
- dopo aver lasciato trascorrere qualche giorno (per poter argomentare di aver pesato attentamente tutti gli atti e le circostanze), prenderà la propria decisione, che dovrà essere formalizzata per iscritto, con una sanzione o con l’archiviazione del procedimento.

Le sanzioni da infliggere sono quelle previste dall’art. 492 del D.Lgs. 297/1994. Con la precisazione, però – dopo la recente sentenza della Corte d’Appello di Torino del 16/10/2013 – che, per i docenti, il Dirigente scolastico può irrogare solo la sanzione disciplinare della censura, mentre la sospensione fino a un mese dall’insegnamento è competenza dell’Ufficio Scolastico Regionale. Non è contemplata dal D.Lgs. 297/1994, e quindi è illegittima l’eventuale irrogazione della sospensioni, da parte del Capo d’istituto, «fino a dieci giorni», prevista in generale dal Decreto Brunetta del 2009 (che prevede la comminazione di tale sanzione sospensiva per mezzo dei dirigenti dei singoli uffici pubblici, ad esclusione, secondo la Corte torinese, dei Dirigenti scolastici). 

La sospensione di un docente fino a 10 giorni, da parte del Dirigente scolastico, equivale a interferire con la facoltà dell’ufficio di rango superiore di scegliere, almeno per addebiti di una certa gravità, fra uno e trenta giorni la durata della punizione spettante al dipendente.

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