Sinergie di Scuola

Il mobbing, come ormai tutti sappiamo, è divenuto una piaga sociale, sia perché lede la dignità del lavoratore, sia perché è un fenomeno in rapida espansione, difficilmente arrestabile in un mercato del lavoro che, da un lato, richiede al dipendente sempre più flessibilità e disponibilità e, dall’altro, assottiglia le tutele contro i licenziamenti ingiustificati.

Da un decennio, però, si sta affacciando, come rilevato dalle sentenze dei giudici di merito, una nuova pericolosa fattispecie: lo straining. Esso altro non è altro che una forma attenuata di mobbing, ma non per questo meno insidiosa.

Il verbo anglosassone to strain può essere tradotto con “sfruttare, spremere, mettere a dura prova” e anche con “essere stremato”. Infatti, il dipendente viene messo in una situazione di profondo stress, solitamente da un proprio superiore, che pone in essere alcune azioni ostili, le quali, pur non avendo il carattere della sistematicità e ripetitività nel tempo proprie del mobbing, discriminano e denigrano il lavoratore, con effetti negativi che si protraggono nel tempo.

Anche nel caso dello straining, la vittima e il carnefice non sono posti sullo stesso piano, avendo il secondo la possibilità di mutare in peggio le condizioni di lavoro del primo, attraverso il demansionamento, la ghettizzazione del sottoposto rispetto ai colleghi, lo svuotamento di mansioni o la sottrazione degli strumenti di lavoro.

Anche una sola azione può integrare la condotta di straining, qualora i suoi effetti siano duraturi nel tempo, come nel tipico caso del demansionamento o del trasferimento ingiustificato in una sede lontana.

Lo straining si differenzia dal normale stress correlato al lavoro, poiché mentre questo ultimo è fisiologico e normale in ogni ambiente lavorativo, purché entro i limiti della normale tolleranza, il primo si caratterizza per l’intento vessatorio da parte dello strainer, che agisce per umiliare o isolare il lavoratore.

La Cassazione sul caso
di una docente inidonea

La Cassazione civile, Sez. Lav., 19/02/2018, n. 3977, ha statuito, infatti, che lo “stress forzato” inflitto dal superiore gerarchico al lavoratore, configura un’ipotesi di straining.

La decisione ha preso le mosse dalla vicenda di una docente, dichiarata inidonea all’insegnamento, e assegnata pertanto alla segreteria della scuola. Tra la professoressa e la dirigenza scolastica si è venuta a creare tensione allorquando la prima aveva evidenziato che occorreva ulteriore personale per l’espletamento dei servizi amministrativi. A queste rimostranze il Dirigente scolastico aveva reagito sottraendole gli strumenti di lavoro; attribuendole mansioni didattiche, sia pure in compresenza con altri docenti, nonostante l’accertata inidoneità; privandola, infine, di ogni mansione e lasciandola totalmente inattiva.

I giudici di primo e secondo grado avevano evidenziato che la condotta, seppure non propriamente mobbizzante, integrava un’ipotesi di straining, ossia, come già sottolineato, di stress forzato deliberatamente inflitto alla vittima dal superiore gerarchico con un obiettivo discriminatorio.

Tale inquadramento giuridico dei fatti di causa è stato confermato dai giudici della Cassazione.

Il MIUR ha resistito in giudizio affermando che il cosiddetto straining non costituirebbe una categoria giuridica, e anche in medicina legale la sua configurabilità è controversa sicché, una volta escluse la sistematicità e la reiterazione dei comportamenti vessatori, quindi del mobbing, non vi è spazio per l’accoglimento della domanda risarcitoria; il Ministero, inoltre, ha messo in luce che il Dirigente scolastico, in presenza di una riscontrata inefficienza del servizio, del tutto ragionevolmente aveva ritenuto di utilizzare altra dipendente che potesse garantire in modo adeguato lo svolgimento delle mansioni amministrative, senza voler discriminare la ricorrente.

La Cassazione ha subito ribadito che lo straining è un fenomeno che è preso in considerazione sia dal diritto che dalla scienza medica, essendo esso «una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie [...]» azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull’art. 2087 c.c.: «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».

In merito al suo contenuto, gli Ermellini hanno precisato che la norma non è circoscritta al solo campo della prevenzione antinfortunistica in senso stretto, perché l’obbligo posto a carico del datore di lavoro di tutelare l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore, gli impone non solo di astenersi da ogni condotta che sia finalizzata a ledere detti beni, ma anche di impedire che nell’ambiente di lavoro si possano verificare situazioni idonee a mettere in pericolo la salute e la dignità della persona.

La responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. sorge, pertanto, ogniqualvolta l’evento dannoso sia riconducibile ad un comportamento colposo del datore di lavoro, ossia o all’inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede.

La Cassazione, pertanto, applicando correttamente il predetto articolo, ha ritenuto sussistente la responsabilità del MIUR, in quanto la docente era stata oggetto di azioni ostili, puntualmente allegate e provate nel giudizio di primo grado, consistite nella privazione ingiustificata degli strumenti di lavoro, nell’assegnazione di mansioni non compatibili con il suo stato di salute e infine nella riduzione in una condizione umiliante di totale inoperosità.

Precedenti sentenze

Nello stesso senso si è espressa la Cassazione nella precedente sentenza 19/02/2016, n. 3291, quando ha giudicato il caso di una neurologa, dipendente dell’Azienda ospedaliera di Brescia, condannando il primario dell’ospedale per straining, per averle causato un danno biologico in relazione ad un disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso, poi cronicizzato. Sono venuti in considerazione due episodi, verificatisi nel corso di un anno, per i quali il primario è stato condannato anche in sede penale per l’atteggiamento ingiurioso tenuto verso la neurologa.

La Corte ha precisato che lo straining può essere provocato appositamente ai danni della vittima, con condotte caratterizzate da intenzionalità o discriminazione – come è avvenuto nella specie per i due episodi che hanno visto il primario come protagonista – e può anche derivare dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro disagevole, per incuria e disinteresse nei confronti del benessere lavorativo.

È sufficiente, infatti, continuano gli Ermellini, anche un’unica azione ostile purché essa abbia provocato conseguenze durature e costanti a livello lavorativo, tali per cui la vittima abbia percepito di essere in una continua posizione di inferiorità rispetto ai suoi aggressori.

Nel caso analizzato, la Cassazione ha riscontrato tutti i parametri di riconoscimento dello straining: ambiente lavorativo; frequenza e durata dell’azione ostile (nella specie almeno semestrale), appartenenza delle subite ad una delle categorie tipizzate dalla scienza (che sono: attacchi ai contatti umani, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni, attacchi contro la reputazione della persona, violenza o minacce di violenza), posizione di costante inferiorità percepita come permanente.

Precedentemente alle due pronunce citate, la Cassazione, nel 2013, attraverso la sentenza 3/07/2013, n. 28603, aveva già statuito che costituisce straining, da parte del direttore di banca verso un dipendente dell’istituto, la sottrazione di responsabilità in favore di altra dipendente, ingiustificatamente favorita dai suoi dirigenti; le ingiuste e aspre critiche alla sua professionalità; la convocazione di un incontro intersindacale finalizzato a criticare il suo comportamento proprio nel periodo in cui si era messo ferie per riprendersi dalle dure critiche ricevute dai suoi superiori; la sua estromissione dai servizio “Customer Care”; il successivo inserimento in mansioni dequalificanti, con allocazione in un vero e proprio “sgabuzzino”, spoglio e sporco, e l’assegnazione a mansioni meramente esecutive e ripetitive, prima come componente di staff del direttore, poi alle dipendenze di un altro direttore come addetto all’unità di controllo rischi.

In sintesi

Dalle sentenze esaminate si possono sintetizzare le “spie” rivelatrici del fenomeno dello straining (P. Formini, Lo straining, in www.businessjus.com):

  1. il comportamento del datore il quale, pur avendo il lavoratore ricoperto ruoli di assoluta responsabilità non riconosce, benché più volte richiesta, la professionalità acquisita;
  2. il comportamento del datore che svuota il lavoratore dei ruoli professionali precedentemente acquisiti rendendolo semplice figura operativa (responsabilità, progetti connessi, compiti tipici della sua funzione progressivamente affidati ad altri soggetti);
  3. l’assoggettamento graduale del lavoratore ad un isolamento (anche formativo), non essendo più coinvolto e informato circa nuovi progetti o altri scenari precedentemente regolarmente affrontati;
  4. la perdita definitiva da parte del lavoratore mediante coinvolgimento saltuario, nel tempo, di ogni attività o responsabilità precedentemente ricoperta;
  5. il conseguente venir meno della preparazione professionale del lavoratore;
  6. la perdita del contatto diretto (via email o di persona) con i propri responsabili;
  7. il mancato coinvolgimento del lavoratore in lavori di gruppo.

Tutto ciò inevitabilmente comporta:

  • l’umiliazione del lavoratore nel vedere disposto dai vertici aziendali lo sgretolamento progressivo della propria carriera professionale, acquisita di fatto e mai riconosciuta, mediante l’esclusione dalle operazioni di responsabilità;
  • le sopravvenute difficoltà nell’espletamento del marginale compito affidato al lavoratore, stressato a causa delle iniziative assunte del datore volte ad isolarlo ed a screditarne l’immagine;
  • il disappunto del lavoratore allorché venga incaricato di svolgere ruoli subalterni rispetto al periodo precedente;
  • l’imbarazzo del lavoratore per non essere più coinvolto dal datore di lavoro, sebbene le promesse di un avanzamento di carriera parallelo alla professionalità acquisita;
  • la condizione di isolamento del lavoratore, resa evidente dalla sistematica esclusione dalla vita aziendale e da ogni decisione e scelta strategica e dal circuito delle informazioni aziendali;
  • la forzata lontananza del lavoratore dall’operatività quotidiana e dai momenti formativi periodici, con una inesorabile perdita di competenze e conoscenze.

Cosa può fare in concreto la vittima di straining?

Come osservato dalla dott.ssa A. Rosiello (“Straining”, in www.wikilabour.it/straining), la vittima di straining può incorrere in serie difficoltà a livello esistenziale fino ad arrivare a disturbi di adattamento e/o patologie di tipo cronico.

Occorre dunque che la stessa affronti un percorso clinico tramite centri specializzati nelle patologie legate allo stress ed alle disfunzionalità organizzative tramite figure professionali quali lo psicologo, lo psicoterapeuta, lo psichiatra.

È di estrema importanza che – in caso di assenze per malattia – la diagnosi del medico di base, pur sintetica (ad es. depressione, ansia, attacchi di panico, ecc.) attesti – se ricorrono gli estremi – che la patologia è riconducibile al contesto lavorativo (e dunque, ad es.: depressione reattiva a problematiche in ambito lavorativo).

Per quanto riguarda la ripartizione dell’onere della prova, incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze, sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie a impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile all’inosservanza di tali obblighi; e nella quantificazione dei danni risarcibili assume rilevanza la consulenza tecnica di un perito (un medico) nominato dal giudice.

Sul piano legale è importante rivolgersi al sindacato o ad un avvocato giuslavorista specializzato in casi di disfunzionalità. Importante, relativamente ai tempi, è anche affrontare il percorso clinico contestualmente (o antecedentemente) a quello legale.

L’azione risarcitoria verso il MIUR si prescrive in dieci anni (se non chiedo i danni entro dieci anni dall’ultimo episodio di straining, non posso farlo mai più), trattandosi di responsabilità contrattuale (legata alla violazione dell’art. 2087 c.c.).

Naturalmente è consigliabile attivarsi tempestivamente, sia per prevenire l’aggravarsi dei danni, sia per ragioni pratiche-processuali: in cause in cui le testimonianze sono di fondamentale importanza, il trascorrere del tempo rischia di far perdere memoria storica ai testimoni e rischia dunque di compromettere la buona riuscita della causa.

Dal punto di vista documentale, è necessario acquisire eventuali lettere di contestazione, mail dal contenuto offensivo, ordini di servizio non attinenti al ruolo e ogni documento che possa essere utile per ricostruire la fattispecie.

Con riguardo alla documentazione medica, fondamentali sono i certificati del medico di base (per attestare la data di inizio dei disturbi), i certificati dei clinici (psicologo, psichiatra, clinica del lavoro ecc.) e la perizia medico-legale sul danno biologico.

Qualora, nel caso di superamento del periodo di comporto (cioè del numero massimo di giorni di assenza per malattia), risulti comprovato che le assenze del lavoratore siano derivate dalla situazione di straining, esse non si computano ai fini del superamento di tale limite massimo.

Nei casi di straining, consistenti molto di frequente in azioni di completo svuotamento di mansioni e ruoli, il lavoratore ha l’onere di individuare le mansioni di assunzione e le ultime diverse mansioni effettivamente svolte ovvero l’assegnazione a mansioni dequalificanti, di modo da dimostrare l’avvenuta dequalificazione in violazione della legge e del contratto di lavoro.

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