Sinergie di Scuola

La Cassazione civile, Sezione lavoro, con la sentenza n. 74 del 2017 è tornata a pronunciarsi sul triste fenomeno del mobbing, questa volta non perpetrato dal superiore, bensì dai colleghi di lavoro.

Si tratta perciò di una fattispecie di mobbing orizzontale, di cui si è più volte occupata la Suprema Corte, evidenziando che è obbligo del datore di lavoro attivarsi per proteggere il proprio dipendente dai comportamenti mobbizzanti degli altri sottoposti che lavorino a stretto contatto con la vittima.

In particolare, la responsabilità del datore di lavoro è di tipo omissivo, cioè di colpevole inerzia a fronte della consapevolezza dei comportamenti scorretti attuati ai danni di un proprio dipendente, non avendo adottato i provvedimenti più opportuni al fine di determinarne la cessazione.

I giudici hanno precisato che l’onere della prova grava sul datore di lavoro il quale, di conseguenza, sarà tenuto a «dimostrare di aver adottato tutte le misure dirette ad impedire la protrazione della condotta illecita».

Nella sentenza n. 74/2017 la Cassazione ripercorre il filone giurisprudenziale appena evidenziato, con l’ulteriore particolarità che, in questo caso, a causa delle reiterate angherie, la vittima ha contratto una grave forma di depressione che le ha fatto superare il periodo di comporto, con conseguente (ingiusto) licenziamento.

Il caso

Il dipendente di una Onlus torinese conveniva l’associazione in giudizio di fronte al Tribunale di Torino, asserendo di aver prestato attività lavorativa come educatore professionale, chiedendo l’accertamento della condotta di mobbing di cui affermava di essere stato vittima a far data dall’assunzione e sino al licenziamento, per superamento del periodo di comporto, determinato dall’insorta sindrome depressiva. Chiedeva, pertanto, la condanna della società convenuta al risarcimento di tutti i danni patiti e anche l’annullamento del licenziamento, con la condanna della società convenuta alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno, nella misura della retribuzione globale di fatto e dei contributi non corrisposti dal giorno del licenziamento all’effettiva reintegrazione.

Il Tribunale di Torino dichiarava la responsabilità del datore di lavoro per il danno alla persona subito dal ricorrente e l’illegittimità della sospensione del lavoratore dalla retribuzione.

La decisione veniva confermata dalla Corte d’Appello di Torino, che riteneva sussistente la condotta di mobbing orizzontale a danno del dipendente, nonché il nesso di causalità tra la stessa e la malattia da lui lamentata, consistente in «una reazione stressogena importante con conseguente insorgenza di disturbi psichici».

È interessante notare la difesa della datrice di lavoro e come essa sia stata rigettata dalla Cassazione.

La Onlus ha sostenuto, tra l’altro, che per la configurazione della fattispecie del mobbing sarebbero necessari i caratteri della molteplicità, sistematicità e durata nel tempo dei comportamenti vessatori, in ordine ai quali la Corte d’Appello non avrebbe preso posizione e che, in relazione all’atteggiamento di contrasto con i colleghi di lavoro, il datore di lavoro non aveva poteri di intervento; ha lamentato altresì che il giudice di merito abbia omesso qualsiasi riferimento alla sussistenza di un intento persecutorio del datore di lavoro nei confronti del suo sottoposto.

La Corte di Cassazione ha correttamente evidenziato che il giudice di secondo grado si è attenuto alla configurazione giuridica del mobbing consolidata nella giurisprudenza, secondo la quale essa rientra fra le situazioni potenzialmente dannose e non espressamente disciplinate da una legge, che designa (essendo stato mutuato da una branca dell’etologia) un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.

Ha quindi ritenuto che sussistessero tutti gli elementi necessari per configurare il mobbing: una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; il nesso di causalità tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi: il motivo che ha accumunato tutti i comportamenti scorretti dei colleghi è stato isolare e umiliare il collega «più fragile o più scomodo».

Gli ermellini hanno ribadito che pure il comportamento vessatorio di colleghi di lavoro può integrare una condotta di mobbing datoriale, ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo o delle condizioni ambientali che lo rendono possibile, o le abbia addirittura determinate, considerato che anche l’aspetto umano fa parte dell’ambiente di lavoro, nell’ambito del quale opera il dovere di protezione previsto dall’art. 2087 del codice civile. Secondo questo articolo: «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». Quindi deve impedire che i comportamenti illeciti dei colleghi del proprio dipendente ledano la sua integrità fisica e morale, facendolo ammalare o costringendolo a dimettersi.

Inoltre l’art. 2049 c.c. sancisce chiaramente che «I padroni e i committenti» (cioè i datori di lavoro) sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro «domestici e commessi» (cioè dei loro dipendenti) nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti. È perciò compito del datore di lavoro di predisporre una adeguata organizzazione dell’impresa o dell’associazione, anche sotto il profilo della “qualità della vita lavorativa”, intesa come assenza di contrasti tra colleghi che non siano quelli riconducibili alle normali relazioni tra dipendenti.

In merito all’elemento soggettivo dell’intento persecutorio, unificante i comportamenti lesivi, esso può essere dimostrato anche dall’uso abnorme del potere direttivo, nella concatenazione temporale degli interventi e nelle loro modalità concrete, quando possa evincersi che esso è indirizzato a fine diverso da quello tutelato dalla norma, assumendo quindi carattere di illiceità (es. trasferimenti di sede immotivati, sanzioni disciplinari pretestuose, mancata concessione di permessi sindacali ecc).

Il periodo di comporto

In merito al superamento del periodo di comporto, non sfuggirà al lettore che il licenziamento deve ritenersi illegittimo poiché tale “scavalcamento” del limite massimo di assenze, previsto nel contratto collettivo, è stato determinato da una malattia (di tipo depressivo) generata proprio dalla colpa del datore di lavoro, rimasto inerte di fronte ai comportamenti mobbizzanti dei suoi sottoposti.

Si legga in merito la sentenza di Cass., Sez. lavoro, 11/06/2013, n. 14643: nel caso in cui il lavoratore ricorra avverso il proprio datore di lavoro per sentir pronunciare l’illegittimità del licenziamento, avvenuto proprio per il superamento del periodo di comporto causato da mobbing, perpetrato dal datore di lavoro che avrebbe ripetutamente sottoposto il soggetto a mansioni degradanti rispetto alla sua qualifica e all’ordinario carico di lavoro, proprio al fine di cagionarne le dimissioni, ha sancito che dal mobbing deriva una vera e propria malattia professionale (sindrome ansioso-depressiva), di per sé sufficiente ad escludere la legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto.

Nello stesso senso la successiva sentenza della Cassazione n. 22538 del 2/10/2013, nella quale si è affermato che se la perizia medica, disposta dal giudice, accerta il nesso causale tra le assenze reiterate e l’ambiente lavorativo, il datore di lavoro non può intimare un legittimo licenziamento.

Il dipendente aveva proposto ricorso avverso il licenziamento, denunciando reiterate condotte vessatorie, attuate dal datore di lavoro con diverse modalità: ripetuti richiami disciplinari non giustificati; sottoposizione e continue visite fiscali in pendenza di malattia; continue pressioni psicologiche che, alla lunga, ne avevano determinato gravi conseguenze sul suo equilibrio psicofisico. Le assenze per malattia erano dunque aumentate, determinando infine l’intimazione di licenziamento per superamento del periodo di comporto. Il tribunale aveva valutato le sanzioni irrogate dal datore di lavoro come sproporzionate, nonché discriminatorie, sancendo che i giorni di malattia, causata da problemi psicologici determinati da tale condotta datoriale, non erano computabili nel periodo di comporto. Di conseguenza, il licenziamento era da considerarsi illegittimo. La sentenza è stata confermata sia in appello, sia in Cassazione.

Lo straining

Il Tribunale di Mantova, con la sentenza del 20/09/2016, ha precisato come le vessazioni subite dal lavoratore, se non possono essere sempre ricondotte ad un’ipotesi di mobbing, potrebbero, a certe condizioni, rientrane nel diverso fenomeno dello straining.

Esso può essere definito come «una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, situazione che, oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante». La vittima, rispetto alla persona che attua lo straining, è in persistente inferiorità.

Questa tipologia di condotta viene attuata appositamente contro una o più persone, sempre in maniera discriminante.

La prima sentenza sull’argomento è quella del Tribunale Bergamo (n. 286 del 2005), che ha avuto il pregio di definire i contorni di una fattispecie molto particolare, nella quale, a differenza del mobbing, i comportamenti vessatori da parte del datore di lavoro non presentano i caratteri della frequenza e della ripetitività, potendosi concretizzare anche in una sola azione ostile nei confronti del lavoratore. Ciò che importa, ai fini dell’individuazione dello straining, è piuttosto la permanenza, in capo alla vittima, di una condizione psico-fisica di disagio sul luogo di lavoro. In tale contesto, hanno rilevanza situazioni lavorative particolarmente stressanti, come, ad esempio, episodi di dequalificazione e/o isolamento professionale, che, oltre a doversi dimostrare ingiusti secondo un criterio di oggettività, devono generare nel destinatario una forma di pressione superiore a quella connaturata alla natura stessa del lavoro svolto e alle normali interazioni organizzative. Il bene tutelato può qui identificarsi, da una parte, con la salute e l’umana dignità del prestatore di lavoro e, dall’altra, con la professionalità e la capacità dello stesso di produrre reddito.

Anche la Cassazione nel 2013 ha conferito cittadinanza giuridica al fenomeno dello straining, in passato impropriamente identificato alla stregua del più complesso mobbing, del quale, invece, è da considerarsi una forma, per così dire, attenuata. Se, infatti, alcuni dei tratti distintivi del mobbing sono proprio la sistematicità, la frequenza e la regolarità delle vessazioni perpetrate ai danni della vittima da un singolo o da un gruppo di persone, nello straining i soggetti coinvolti sono destinatari di sporadiche azioni ostili, che causano, pur tuttavia, gli stessi sintomi del mobbing: problemi di autostima e salute, turbative professionali e di serenità familiare, che si ripercuotono sovente sulla qualità della vita del soggetto.

Lo straining produce le ricadute peggiori proprio nella sfera esistenziale della vittima, dato che va a pregiudicarne la dignità e l’immagine, sia nel luogo di lavoro (in questo caso si parla di danno professionale nella sua componente esistenziale) sia negli altri luoghi in cui l’individuo esprime la propria personalità (in primis la famiglia) e comporta una sofferenza d’animo conseguente alle ingiuste vessazioni.

Secondo l’orientamento consolidato della Suprema Corte, il risarcimento del danno morale in favore del soggetto danneggiato per lesione del valore della persona umana costituzionalmente garantito, prescinde dall’accertamento di un reato (infatti né il mobbing né lo straining sono punibili come reati) e il giudice di merito può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone l’entità, in via equitativa, con formazione della prova anche presuntiva, in base alle circostanze del caso concreto.

Al danno morale può sommarsi anche quello biologico, qualora i comportamenti di mobbing o di straining abbiano causato alla vittima un danno permanente alla salute, da accertarsi con perizia medico-legale.

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