Sinergie di Scuola

La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 45736/2018 torna ad accendere i riflettori sui limiti del potere disciplinare degli insegnanti nei confronti degli alunni.

Si discute spesso di quali siano i confini entro i quali i docenti si devono muovere per correggere i comportamenti indisciplinati dei propri allievi, senza però recare loro pregiudizio da un punto di vista psicologico, morale e, soprattutto, fisico.

Senza citare gli innumerevoli studi portati avanti da illustri studiosi di pedagogia e psicologia dell’età evolutiva, è di tutta evidenza che le relazioni interpersonali tra allievo e docente non si dipanano in un piano di assoluta parità, bensì il primo e sottoposto al potere correttivo e di sorveglianza del secondo.

Da questo potere disciplinare nasce il dovere dell’insegnante di agire nell’interesse del minore, evitando di porre in essere azioni violente o denigratorie, anche se giustificate da un presunto intento educativo.

Partendo da questo assunto, quindi, bene si comprende la decisione della Cassazione sopra citata, la quale è stata chiamata a pronunciarsi su un caso di un alunno, affetto da disturbo del linguaggio, che era stato oggetto di vessazioni da parte del docente, consistenti in ripetuti atti denigratori alla presenza dei compagni, oltre che della Dirigente scolastica e di alcuni colleghi, che avevano ad oggetto proprio la sua balbuzie.

Le suddette condotte derisorie avevano aggravato la balbuzie del ragazzo per un tempo superiore a 40 giorni, come è risultato dal certificato medico prodotto in giudizio, dimostrante il pericolo di una malattia, cioè di un danno fisico rilevante dell’allievo.

Da ciò ne è conseguita la condanna del professore, in appello, per abuso dei mezzi di correzione o disciplina, reato previsto dall’art. 571 del codice penale, il quale afferma che «Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi.

Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le pene stabilite negli articoli 582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni».

L’insegnante è ricorso in Cassazione basando la sua difesa, essenzialmente, sulla contestazione del pericolo concreto di una malattia nel corpo o nella mente, richiesto dalla condotta tipica del reato, ritenendo si fosse trattato di comportamenti innocui e di gesti frequenti da parte di chi è in posizione sovraordinata, compiuti per riportate all’attenzione il ragazzo irriguardoso verso compagni e docenti.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha respinto le critiche del ricorrente affermando due principi fondamentali in tema di abuso di mezzi di correzione:

  1. integra il reato di cui all’art. 571 c.p., il comportamento dell’insegnante che «umili, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno, causandogli pericoli per la salute, atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall’ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità» (cfr. Cass. n. 47543/2015) – a tal fine, la Cassazione ha ritenuto sufficiente il ricorso, da parte dell’insegnante, a qualunque forma di violenza, fisica o morale, ancorché minima e orientata a scopi educativi (cfr. Cass. n. 6654/2016);
  2. quanto al pericolo di una malattia fisica o psichica richiesto dalla norma, trattandosi di tipico reato di pericolo, non è richiesto che questa si sia realmente verificata (basta che sorga il semplice pericolo che si possa verificare) e il pericolo non deve essere accertato necessariamente attraverso una perizia medico-legale ovvero sulla base indagine eseguita con particolari cognizioni tecniche, potendosi desumere anche dalla natura dell’abuso, secondo le regole della comune esperienza, allorquando la condotta del docente presenti connotati tali da risultare suscettibile, in astratto, di produrre siffatta conseguenza.

In merito al secondo punto si deve solo precisare che la nozione di “malattia” è più ampia di quella relativa al reato di lesione personale, comprendendo ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo, dallo stato di ansia all’insonnia, dalla depressione ai disturbi del carattere e del comportamento (Cass., Sez. III, n. 49433 del 22/10/2009; Cass., Sez. VI, n. 16491 del 7/02/2005).

Altri casi

Proprio l’assenza di tale pericolo ha indotto il Tribunale di Milano, con la sentenza del 2/07/2010, a non punire un insegnante di scuola elementare il quale, all’uscita dalla scuola primaria dove insegnava, probabilmente esasperato dal rapporto con un alunno, incontrando la madre adottiva del bambino, si sfogava definendo suo figlio un «asino» e una «bestia». Il docente si spingeva nel dire «nella mia classe non lo voglio più, lo deve portare via e fargli cambiare scuola perché è un’offesa alla mia intelligenza perché non mi permette di svolgere il programma».

Il docente non è stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 571 c.p. non perché le sue frasi non fossero ingiuriose e i mezzi impiegati illeciti, ma perché il comportamento offensivo non aveva provocato alcun pericolo di una malattia rilevante nel discente.

La madre del minorenne avrebbe potuto, però, agire per ottenere la condanna del maestro per il reato di ingiurie (reato successivamente depenalizzato dal D.Lgs. 7 del 15/01/ 2016, ndr), se avesse presentato, nei tempi richiesti, apposita querela.

In merito al primo punto, invece, occorre stabilire quando in concreto il comportamento del docente integri una forma di violenza e, per fare ciò, è utile esaminare alcuni casi decisi dai giudici.

Viene subito in considerazione la pronuncia della Cassazione penale, Sez. VI, 2/04/2014, n. 15149, che ha giudicato colpevole del reato di cui all’art. 571 c.p. l’insegnante di una scuola elementare al quale un alunno di sette anni aveva indirizzato un suono di dileggio con la bocca, che aveva costretto il minore a girare carponi in aula, alla presenza degli altri alunni e ad emettere suoni simili a grugniti.

La Corte non ha giustificato l’atteggiamento “bullizzante” del maestro sebbene avesse avuto, a parere di questo ultimo, esclusive finalità educative, volte ad evidenziare, di fronte alla scolaresca e allo stesso alunno, la natura dell’offesa arrecata alla funzione docente. L’insegnante, inoltre, ha affermato di aver voluto evitare di applicare punizioni più severe, quali l’espulsione del bambino dall’aula o la sua sospensione dalle lezioni. In altre parole, per il docente il bambino l’aveva fatta franca...

Per la Cassazione invece, il comportamento dell’imputato doveva ritenersi ingiustificabile sotto ogni punto di vista, poiché, se non possono ritenersi preclusi quegli atti di pressione morale che risultino adeguati alla finalità di rafforzare la proibizione di comportamenti di indisciplina gratuita o insolente, idonei a minare la credibilità e l’effettività della funzione educativa, o anche quelli di coercizione fisica meramente impeditivi di condotte violente da parte del discente, tuttavia integra la fattispecie criminosa in questione l’uso di un mezzo, vuoi di natura fisica, psicologica o morale, che abbia come effetto l’umiliazione del soggetto passivo.

Dal momento che, con riguardo ai bambini, il termine “correzione”, presente nel testo della normativa, va inteso come sinonimo di “educazione”, l’intento educativo, osserva la Corte, deve essere esercitato in coerenza con una evoluzione non traumatica della personalità del soggetto cui è rivolto.

Nella specie, l’imposizione di una condotta fisica di per sé gravemente umiliante, quale quella descritta, al di là degli intenti educativi che, stando al ricorrente, l’avrebbero ispirata, corrispondeva oggettivamente alla riproduzione di un dileggio che il bambino, dopo averlo indirizzato al docente, era stato costretto a rivolgere a se stesso al cospetto dei suoi compagni di classe, con una ben più accentuata ripercussione, per le modalità imposte, sul piano psicologico e sulla sua sfera di onorabilità, che è patrimonio anche dei minori, rispetto alla impertinente “offesa” recata al prestigio del maestro.

La Corte, inoltre, ha considerato destituita di ogni fondamento la statuizione del maestro secondo la quale il comportamento irriguardoso dell’alunno era da inquadrarsi in un contesto “bullistico” alimentato dall’area territoriale “mafiosa” in cui, a suo avviso, era inserito il minorenne: tale osservazione, non solo palesemente avventata, avuto riguardo alla tenera età della persona offesa, risultava comunque espressione di una distorta idea secondo cui, di fronte a simili contesti “bullistici”, si possa reagire con metodi che finiscono per rafforzare il convincimento che i rapporti relazionali (scolastici o in genere sociali) debbano essere risolti sulla base di rapporti di forza o di potere (v., per simili considerazioni, Cass., Sez. VI, n. 34492/2012).

Con la successiva sentenza n. 47453/2015 la Cassazione ha precisato che non rientrano negli atti di pressione morale adeguati alla finalità di rafforzare la proibizione di comportamenti di indisciplina gratuita o insolente, le minacce volte a bocciare l’allievo particolarmente vivace, se abbiano causato un pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, come prescritto nell’art. 571 c.p.

Esse, infatti, possono costituire una «violenza psicologica che potrebbe causare un pericolo alla salute dell’alunno».

Lo “scappellotto”: abuso di mezzi di correzione o disciplina?

La Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 10/03/2016, n. 9954, ha respinto la tesi difensiva di una maestra che aveva dato un lieve schiaffo al proprio allievo e si era giustificata evidenziando che lo scappellotto ricevuto dal minore nell’ambito di un rapporto educativo con l’insegnante, in quel peculiare contesto, non si sarebbe potuto reputare esorbitante rispetto a leciti mezzi di correzione, in quanto per la sua modesta entità non avrebbe integrato neppure una semplice percossa.

In ogni caso, ha sostenuto la ricorrente, lo scappellotto di un professore non potrebbe causare un pericolo di malattia nel corpo o nella mente necessario per la punibilità del fatto: la malattia, infatti, non va confusa con il mero stato di turbamento, tanto meno nell’ambito di un rapporto educativo e finalizzato alla correzione di comportamenti scorretti dell’alunno.

La Corte ha innanzi tutto evidenziato che, ai fini della valutazione della condotta, deve tenersi conto che nel rapporto tra insegnante e bambini affidati alle sue cure assume predominante rilievo il profilo educativo, rispetto al quale il bambino deve essere considerato non destinatario passivo di una semplice azione correttiva ma titolare di diritti, a cominciare da quello alla propria dignità, che implica in ogni caso un’azione volta a realizzare l’armonico sviluppo della sua personalità (v. Cass. Sez. VI,18/03/1996, n. 4904).

Ciò preclude in partenza, come più volte abbiamo evidenziato in questo articolo, ogni strumento che faccia leva sulla violenza, pur orientata a scopi educativi.

In realtà il perseguimento di una finalità correttiva o educativa è del tutto irrilevante, giacché, proprio a fronte della peculiare qualità del destinatario del comportamento, deve considerarsi preclusa qualunque condotta che assuma in concreto il significato dell’umiliazione, della denigrazione, della violenza psicologica, oltre che, come detto, della violenza fisica.

In ogni caso, diversamente da quanto prospettato dalla docente, anche al fine di legittimare una condotta incentrata, al più, sull’uso di atti di minima violenza fisica o morale, occorrerebbe la concreta allegazione della situazione che l’abbia giustificata, non potendosi muovere dal presupposto che una condotta siffatta possa in generale supporsi legittima, salva prova del contrario.

Quindi, un semplice scappellotto solo se tirato con lievissimo uso della forza e in una situazione particolare (situazione da dimostrare da parte dell’insegnante), che non provochi il pericolo di una malattia nel fisico o nella mente, non integra il reato di abuso di mezzi di correzione.

Se però, come nel caso concreto, la docente non si sia limitata ad un “innocuo” scappellotto, ma abbia, in altre occasioni, colpito i minori con schiaffi o sberle o abbia tirato loro con forza i capelli, o li abbia sottoposti a violenze psicologiche o ancora a condotte umilianti, come il minacciarli dell’arrivo del “diavoletto”, nel costringerli a cantare o a mangiare, nel farli stare con la lingua fuori, deve essere giudicata colpevole, a maggior ragione, del reato punito dall’art. 571 c.p.

Episodi singoli o reiterati

Per integrare il reato punito dall’art. 571 c.p. basta anche un solo episodio o l’abuso dei mezzi di correzione deve avvenire con una certa frequenza per essere punito?

Secondo Cass., Sez. VI penale, 22/03/2011, n. 11251, il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina non ha natura di reato necessariamente abituale, sicché ben può ritenersi integrato da un unico atto espressivo dell’abuso, come anche da una serie di comportamenti lesivi dell’incolumità fisica e della serenità psichica del minore, quale che sia l’intenzione correttiva o disciplinare del soggetto attivo.

Da queste sentenze si evince come il concetto di abuso dei mezzi di correzione si sia evoluto nel tempo: i giudici sono passati, perciò, dalla condanna dei comportamenti violenti che mettevano a repentaglio la salute fisica del minore, alla punizione di tutti gli atteggiamenti che avessero come conseguenza la lesione della salute psicologica e morale del bambino o dell’adolescente, correlato allo sviluppo di numerosi ed eterogenei disturbi psichiatrici.

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