Sinergie di Scuola

Nel num. 22 – Ottobre 2012 ci siamo già occupati del tema del bullismo e delle sanzioni educative comminate dall’insegnante.

Una recente nota del Servizio istruzione della Provincia autonoma di Trento ci consente di ritornare sull’argomento, evidenziando ulteriori aspetti riguardanti l’obbligo di denuncia, conseguente alla commissione dei reati da parte degli studenti, gravante sugli operatori scolastici e, eminentemente, sul dirigente dell’istituto.

Innanzitutto nel documento viene precisato che gli alunni possono assumere il ruolo sia di vittima che di autore del reato: in entrambi i casi sussiste l’obbligo di denuncia, qualora il fatto sia particolarmente grave, come verrà precisato in seguito.

Il fenomeno del bullismo

Il focus della prima parte del documento è senz’altro incentrato sul fenomeno del bullismo, distinguendo le ipotesi in cui i comportamenti dei bulli violano “solo” le regole della buona educazione e della convivenza civile, da quelli ben più allarmanti, che integrano una vera e propria fattispecie penale, perseguibili a querela di parte o d’ufficio.

Nel primo caso la scuola ha in sé gli anticorpi per debellare tale “malessere”, nel senso che essa può e deve organizzare interventi di sostegno al disagio e di rieducazione personalizzati, atti a contenere e prevenire le violenze estemporanee o le schermaglie tra gli alunni, riconducibili, nella maggioranza dei casi, al normale percorso evolutivo dei minorenni.

Non è di certo agevole trovare il rimedio giusto per far comprendere al discente il disvalore dei propri atti prevaricatori, ma certamente assoggettarlo all’obbligo di scrivere sul quaderno per cento volte la frase “sono un deficiente”, con il risultato di provocare nell’allievo un forte stato d’ansia, non è stato ritenuto dalla Sezione VI penale della Cassazione, con sentenza 14 giugno – 10 settembre 2012, consono alla finalità rieducativa propria di una istituzione scolastica.

Nel caso in questione il bullo aveva deriso un proprio compagno di classe chiamandolo femminuccia e ne aveva impedito l’ingresso nei servizi igienici dei maschi, oltre ad altre deprecabili angherie, senza provare alcun rimorso e rifiutandosi di porgere le sue scuse alla vittima, nonostante fosse stato appositamente sollecitato dall’insegnante. La reazione della maestra è stata giudicata dagli Ermellini denigratoria e umiliante, anche perché il compito di punizione doveva essere eseguito alla presenza di tutti i compagni e controfirmato da un genitore. L’autore delle prevaricazioni, in seguito alla punizione ricevuta, ha manifestato un forte disagio psicologico, con conseguente intervento di uno psicoterapeuta seguito dalla scelta di una diversa scuola.

La docente è stata condannata per abuso dei mezzi di correzione e disciplina, reato previsto dall’art. 571 c.p., poiché la risposta educativa dell’istituzione scolastica deve essere sempre proporzionata alla gravità del comportamento deviante dell’alunno e, in ogni caso, essa non può mai consistere in trattamenti lesivi dell’incolumità fisica o afflittivi della personalità dei minore.


La Corte ha sottolineato che, nel processo educativo, essenziale è la congruenza tra mezzi e fini, tra metodi e risultati, cosicché diventa contraddittoria la pretesa di contrastare il bullismo con metodi che finiscono per rafforzare il convincimento che i rapporti relazionali siano decisi dai rapporti di forza o di potere.
 La costrizione a scrivere cento volte la frase sopra riportata, lesiva della dignità dell’alunno e umiliante per le modalità di esecuzione, lungi da indurre nel bullo sentimenti di solidarietà verso i soggetti vulnerabili, era obiettivamente idonea a rafforzare nel ragazzo il convincimento che i rapporti relazionali sono regolati dalla forza, quella sua verso i compagni più deboli, quella dell’insegnante verso di lui.

Non posso esimermi, al riguardo, di esprimere una considerazione: la sanzione inflitta dall’insegnante è stata senz’altro poco costruttiva, ma se i genitori avessero affrontato per tempo il problema, anche avvalendosi della consulenza di uno psicologo, non lasciando degenerare la situazione e confrontandosi con la scuola e la famiglia dell’alunno denigrato, la Cassazione non sarebbe dovuta intervenire, pronunciando una sentenza che lascia, a noi insegnanti, un po’ d’amaro in bocca.


Nello stesso solco tracciato dalla sentenza appena commentata, si colloca la sentenza della Cassazione n. 15149 del 19/03/2014, che ha condannato, sempre per il reato previsto dall’art. 571 c.p., un maestro elementare che aveva costretto un suo alunno di sette anni, dal quale era stato deriso per avergli fatto il verso del maiale davanti a tutta la classe, a mettersi a terra a quattro zampe e a grugnire. 

La condanna a due mesi, sospesa con la condizionale, è stata fondata sulla considerazione che il docente ha sbagliato nel comportarsi da prevaricatore, abusando del proprio potere al fine di ripristinare il suo onore e la sua credibilità di fronte alla classe. Non può infatti porsi sullo stesso piano del piccolo bullo, rispondendo alla sua offesa con un comportamento altrettanto offensivo, poiché  anche i bambini sono titolari di una “sfera dell’onorabilità” che non può essere compromessa proprio da chi è chiamato, istituzionalmente, a proteggerla. 

Culpa in vigilando e culpa in educando

Da quanto sinora prospettato, è emerso come il confine tra atti di bullismo irrilevanti ai fini penali e commissione di specifici reati sia talvolta labile; inoltre non esiste nel nostro codice penale un autonomo reato di “bullismo”, comprendendo questo termine un insieme di condotte, ripetute e costanti, arroganti e prepotenti, tesi alla prevaricazione, al dileggio, all’emarginazione ai danni di una o più persone, posti in essere da un solo soggetto con la connivenza di altri o da un gruppo.

Quando l’alunno prepotente supera tale confine, scatta l’obbligo di denuncia a carico del personale scolastico, che non può rimanere indifferente innanzi a condotte particolarmente gravi, reiterate nel tempo e che si caratterizzano per l’intenzionalità dell’aggressione al bene protetto, come gli atti di violenza verso i coetanei, gli abusi e le molestie sessuali, i furti o i danneggiamenti ai beni della scuola.

Infatti, la nota del 3/04/2014 evidenzia che è ormai pacifico, sia in dottrina che in giurisprudenza, come l’atto di bullismo a scuola non è rilevante solo per il suo autore e la vittima, ma si traduce in forme di responsabilità, scaturenti dall’omissione dell’obbligo di vigilanza, anche per i docenti, per gli ausiliari e, a titolo di omissione degli obblighi organizzativi, per i Dirigenti scolastici.

In tal senso la giurisprudenza della Cassazione è costante nel ritenere la responsabilità del personale scolastico per culpa in vigilando, a causa del fatto illecito commesso dagli studenti, laddove non dimostri di aver adottato tutte le misure atte a scongiurare e prevenire episodi di violenza sulle persone e cose. Si veda l’illuminante sentenza della Cassazione, Sez. II, n. 2657/2003, che ha specificato come «[...] non sia sufficiente la sola dimostrazione di non essere stati in grado di spiegare un intervento correttivo o repressivo, ma è necessario anche dimostrare di aver adottato, in via preventiva tutte le misure disciplinari od organizzative idonee ad evitare il sorgere situazioni pericolose».

Un caso particolare (e certamente drammatico) è stato sottoposto recentemente all’esame degli Ermellini: una alunna ha subito violenza sessuale da un operaio che ha avuto l’autorizzazione ad accedere all’interno della scuola per eseguire lavori di ristrutturazione.

La Sezione III civile della Cassazione, con sentenza 29/05/2013, n. 13457, ha ritenuto sussistere la responsabilità della scuola, e per essa del Miur, pur a fronte dell’imprevedibilità dell’atto di violenza contro il quale, secondo il Ministero, il personale scolastico non avrebbe potuto fare alcunché.

Il Dirigente scolastico, infatti, non aveva predisposto alcuna forma di sorveglianza idonea a prevenire danni di qualsiasi genere agli alunni, e ciò ha agevolato l’azione criminosa dell’operaio, pur ammettendone il carattere imprevedibile e aberrante. 


La giurisprudenza ha più volte precisato che, accogliendo la domanda d’iscrizione e ammettendo l’alunno a scuola, si conclude tra esso e l’istituto un contratto, dal quale scaturisce un preciso obbligo in capo al personale scolastico di vigilare e garantire sicurezza e incolumità dell’alunno nel tempo in cui fruisca della prestazione scolastica.

La responsabilità del corpo docente si somma, eventualmente, a quella dei genitori del bullo, come rilevato dalla Corte di Cassazione, Sez. III civile, nella sentenza n. 9509/2007, in quanto questi ultimi sono responsabili dell’educazione dei figli e, pertanto, debbono risarcire i danni causati dai loro comportamenti violenti. 

Nel caso di specie, un minorenne, introdottosi in un campo da tennis, aveva colpito un altro ragazzino con la racchetta, procurandogli alcune ferite alla bocca. La Suprema Corte ha sanzionato i genitori, poiché costoro non hanno offerto «la prova di non aver potuto impedire il fatto illecito commesso dal figlio minore, capace di intendere e di volere, prova che si concretizza, normalmente, nella dimostrazione, oltre di avere impartito al minore un’educazione consona alle proprie condizioni sociali e familiari, anche di avere esercitato sul medesimo una vigilanza adeguata all’età».

Culpa in organizzando

In merito alla culpa in organizzando del capo d’istituto, essa scaturisce dalla omessa attivazione di tutte quelle misure preventive atte ad impedire che gli atti di bullismo – fisiologici al contesto scolastico – non degenerino in atti di violenza, determinando così lesioni per gli studenti che sono sottoposti alla vigilanza della scuola.

Il Tribunale di Milano, Sez. X civile, con la sentenza n. 8081/2013 ha statuito, appunto, che sussiste la responsabilità del MIUR per culpa in vigilando, per le lesioni patite nella scuola da un minore, poiché durante il processo il ministero non ha dimostrato di aver adottato le misure preventive atte a scongiurare situazioni antigiuridiche.

Questa sentenza è interessante sotto un duplice profilo:

La spiegazione della ratio delle misure di prevenzione che il Dirigente scolastico deve adottare

La preadolescenza e l’adolescenza sono caratterizzate da un minimo comune denominatore, costituito dalla “sfida” che ogni ragazzo porta ai propri simili e al mondo che lo circonda per “saggiare la propria personalità”.

L’istituzione scolastica deve garantire l’armonica costruzione della personalità di ogni alunno, attraverso il confronto tra di loro, in un luogo e in ambiente “controllato”.

Questa basilare funzione “costruttiva”, come evidenziato dal tribunale meneghino, deve essere esercitata dalla scuola quella attenzione che consenta di dimostrare, ove accada un fatto violento tra coetanei, di aver esercitato sugli allievi una sorveglianza idonea ad impedire il fatto, attraverso l’adozione di misure preventive atte a contenere l’insorgere di situazioni pericolose.

Come posto in luce da G. Vaccaro (“Bullismo: scuola responsabile se non attua misure preventive”, pubblicato in www.diritto24.ilsole24ore.com), è «evidente infatti come, al di là di tutte le considerazioni in merito alla crisi del sistema educativo familiare, con la conseguente inadeguatezza dell’intervento preventivo interno, la stessa esistenza di un ambito scolastico e l’esistenza di una Amministrazione scolastica, costituiscano i due elementi, sufficienti ed idonei, a far sorgere in capo al secondo, delle precise obbligazioni codicistiche in tema di responsabilità. Con la conseguenza che ove si realizzi, nel tempo dell’affidamento dell’allievo al precettore, un evento che causi un danno al primo, la responsabilità risarcitoria sussisterà piena ogni volta, e possa essere esclusa, solo dalla dimostrazione dell’adozione di misure preventive tali da poter considerare l’evento dannoso come un elemento straordinario che ha superato la stessa prevenzione».


La quantificazione del danno

Il Tribunale ambrosiano ha condannato l’autore dell’atto di bullismo a risarcire alla vittima il danno psicologico, manifestatosi sotto forma di «disturbo dell’adattamento con ansia ed umore misti e sua progressione verso un disturbo depressivo minore, cronico, poco più che moderato; fobia sociale, disturbo del ritmo circadiano del sonno tipo, fase del sonno ritardata, in soggetto con caratteristiche dipendenti ed evitanti di personalità», in stretto rapporto di causalità con l’aggressione e le percosse subite.

I giudici hanno quantificato il danno in 10.000 euro, tenendo conto che il soggetto leso avrà bisogno di una lunga terapia psicologica di sostegno, per un minimo di due anni.

Altri reati

La nota della provincia trentina prosegue descrivendo altri reati nei quali può concretizzarsi il comportamento del bullo, quali percosse e lesioni a fronte di schiaffi o pestaggi, furto nel caso di sottrazione di oggetti appartenenti alla scuola o a soggetti terzi, danneggiamento posto in essere per il tramite di atti vandalici, l’uso indebito del telefonino integrante la contravvenzione rubricata “interferenze illecite nella vita privata” (art 615 bis c.p.). 

Questa ultima fattispecie è integrata dalla condotta di colui che «mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’articolo 614» (tali luoghi sono, a norma del comma 1 dell’art. 614 c.p.,  l’abitazione altrui o un altro luogo di privata dimora, o le appartenenze di essi), prevedendo la sanzione della «reclusione da sei mesi a quattro anni.

Alla stessa pena soggiace, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chi rivela o diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, le notizie o le immagini ottenute nei modi indicati nella prima parte di questo articolo.

I delitti sono punibili a querela della persona offesa; tuttavia si procede d’ufficio e la pena è della reclusione da uno a cinque anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o servizio, o da chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato».

Con la norma ex art. 615 bis c.p. , il legislatore ha inteso sanzionare tutte le incursioni abusive, ancorché non fisiche, nella vita privata altrui.

La giurisprudenza prevalente considera privata dimora non soltanto «la casa di abitazione, ma anche qualsiasi luogo destinato permanentemente o transitoriamente all’esplicazione della vita privata o di attività lavorativa, e, quindi, qualunque luogo, anche se – appunto – diverso dalla casa di abitazione, in cui la persona si soffermi per compiere, pur se in modo contingente e provvisorio, atti della sua vita privata riconducibili al lavoro, al commercio, allo studio, allo svago» (Cass., Sez. I civ., 24/03/2005, n. 6361; Corte Cost., sentenza 24/03/1987, n. 88).

A tale proposito, segnaliamo un interessante documento, “Telefonini ed apparecchiature tecnologiche a scuola: proviamo a comprendere meglio la normativa”, del Liceo Scientifico “A. Banfi” di Vimercate (presso cui opera la collega Caterina Runfola).


L’occupazione dell’edificio per protesta

Il Servizio istruzione trentino non omette di considerare, inoltre, un ulteriore profilo di responsabilità penale degli studenti: l’occupazione dell’edificio scolastico per fini di protesta. Ciò produce, ovviamente, l’interruzione dell’erogazione del servizio pubblico dell’istruzione, integrando, sussistendone i presupposti, i reati di “invasione di terreni ed edifici” (art. 633 c.p.) e il connesso delitto di “interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità” (art. 340 c.p.).

Riporto, in proposito, un’interessante sentenza del Tar Calabria, Sez. II, n. 1936/2007, nella quale i giudici, hanno preliminarmente ribadito che:

  1. nel caso delle occupazioni studentesche, non è ravvisabile l’elemento dell’arbitrarietà dell’invasione, atteso che agli alunni di una scuola pubblica è riconosciuto dalla legge il diritto di accedere alla struttura di riferimento anche indipendentemente dagli orari di lezione, essendo questi membri attivi della comunità scolastica (purché, beninteso, tale diritto di accesso venga esercitato nell’arco temporale in cui i servizi della scuola siano da reputarsi a disposizione dei potenziali utenti);
  2. l’occupazione studentesca di un edificio scolastico, pur se finalizzata ad esternare la legittima critica nei confronti delle autorità costituite e dei loro provvedimenti, può integrare gli estremi del diverso reato di interruzione di pubblico servizio, previsto dall’art. 340 c.p.
    La menzionata fattispecie si configura quando la condotta del soggetto agente sia stata in grado non solo di cagionare l’interruzione del funzionamento di un ufficio o di un servizio pubblico, ma anche di alterare l’ordinato e regolare svolgimento di esso, seppur in maniera temporanea o marginale (cfr. Cass., Sez. VI penale, 2/05/2005, n. 22422 e 21/10/2003, n. 47299), qualora attraverso tali comportamenti degli studenti si impedisca lo svolgimento delle lezioni durante tutto il periodo della protesta, non consentendo ai docenti e agli allievi dissenzienti di poter proseguire rispettivamente nell’insegnamento e nell’apprendimento delle materie scolastiche. Inoltre l’occupazione degli ambienti scolastici, avvenuta nei modi descritti, integra pure una violazione, rilevante in termini di illecito amministrativo-disciplinare, dei doveri dello studente di cui all’art. 3, commi 2 e 5, del D.P.R. n. 249/1998, e precisamente dei seguenti precetti: «2. Gli studenti sono tenuti ad avere nei confronti del capo d’istituto, dei docenti, del personale tutto della scuola e dei loro compagni lo stesso rispetto, anche formale, che chiedono per se stessi. 5. Gli studenti sono tenuti ad utilizzare correttamente le strutture, i macchinari e i sussidi didattici e a comportarsi nella vita scolastica in modo da non arrecare danni al patrimonio della scuola»;
  3. l’illiceità del comportamento degli studenti occupanti non può essere giustificata, ex art. 51 c.p., dall’esercizio dei diritti, costituzionalmente garantiti, di libera manifestazione del proprio pensiero (rectius, di critica). Si è fuori, nel caso di specie, dall’esercizio legittimo del diritto di critica, qualora la condotta posta in essere dai soggetti che protestano si concretizzi in un abuso degli stessi, cioè nell’estrinsecazione di facoltà non consentite, lesive di altri interessi costituzionalmente protetti, come il diritto allo studio degli studenti dissenzienti e il buon andamento degli uffici pubblici.

Tutto ciò, però, ed è questo l’aspetto interessante della pronuncia del Tar calabro, non può giustificare l’attribuzione del sei in condotta, fondata esclusivamente sulla partecipazione degli studenti all’attività di occupazione della scuola (tra l’altro, nel caso concreto, irrogata senza la previa instaurazione del contraddittorio, che avrebbe permesso agli alunni coinvolti e ai rispettivi genitori di esplicitare le proprie ragioni). 

I giudici hanno statuito, infatti, che la valutazione della condotta, effettuata in occasione degli scrutini, non deve trasformarsi in un’impropria sanzione disciplinare, irrogata senza il rispetto delle garanzie che la legge appresta in favore degli incolpati. Tale notazione ha come corollario che il voto di condotta, essendo diretto ad esprimere la valutazione complessiva dell’alunno non solo sotto l’aspetto della regolarità e/o della diligenza nel seguire le lezioni, ma soprattutto sotto il profilo della maturazione della personalità con riferimento al comportamento in generale nei confronti della comunità scolastica e al rispetto delle regole del buon vivere civile (cfr. TAR Puglia - Lecce, Sez. I, 25/07/1991, n. 475), se assume connotazione negativa, deve necessariamente trovare riscontro nella previa contestazione degli addebiti, effettuata con le forme del procedimento disciplinare regolato (per la scuola secondaria) dall’art. 4 del D.P.R. n. 249/1998. 

Ragionare in maniera diversa significherebbe attribuire al voto in condotta un’inammissibile valenza sanzionatoria (atipica), mentre, più correttamente, deve ritenersi che in esso vada riportata la valutazione del comportamento dell’alunno all’esito dell’eventuale attribuzione di illeciti disciplinari. In altri termini, il voto negativo in condotta non può costituire esso stesso una sanzione, ma deve presentarsi come la risultante di precedenti misure sanzionatorie, comminate nel rispetto delle garanzie offerte dal procedimento disciplinare; ciò al duplice fine di rendere trasparente e verificabile il giudizio sulla condotta dell’allievo e di consentire a quest’ultimo, oltre alla facoltà di opporre controdeduzioni, la possibilità di correggere il proprio operato nel corso dell’anno scolastico. 

È, infine, illegittimo il voto di condotta attribuito non in base al comportamento complessivamente osservato dallo studente durante l’anno scolastico, ma in virtù del contegno tenuto in una specifica circostanza, anche se riprovevole (cfr. TAR Friuli Venezia Giulia, 26/03/1987, n. 93).

L’obbligo di denuncia

Proseguendo nell’esame della nota del 3/04/2014, essa fornisce alcune istruzioni circa l’insorgenza dell’obbligo di denuncia dei reati gravante sugli operatori scolastici.

Il Dirigente scolastico, il personale ata e il corpo docente, anche appartenente ad una scuola paritaria, in quanto pubblici ufficiali e i collaboratori scolastici, i quali possiedono, secondo la giurisprudenza e dottrina dominante, la qualità di incaricati di pubblico servizio, hanno l’obbligo, di fronte a reati perseguibili d’ufficio, di denunciare la notizia di reato all’Autorità giudiziaria o ad altra Autorità che, come il Comando dei Carabinieri o la Questura, ha l’obbligo di riferire a quella.


I reati sono perseguibili d’ufficio, precisa la nota, quando per il loro carattere di estrema gravità e offensività, lo Stato considera perseguibili anche a prescindere dalla volontà, cioè dalla querela,  delle persone offese. L’obbligo di denuncia di reato è previsto sia nel caso in cui il minore ne sia vittima, sia autore. L’omissione o il ritardo della denuncia configura il reato di cui all’art. 361 del codice penale “omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale”.

La denuncia deve essere indirizzata alla Procura della Repubblica presso il Tribunale del luogo dove è avvenuto il reato, se indiziato del reato è un maggiorenne; alla Procura della Repubblica per i minorenni se indiziato è un minore. Essa può essere presentata, più semplicemente, anche ad un ufficiale di polizia giudiziaria (Carabinieri, Polizia, Guardia di finanza ecc.).

La denuncia deve essere inoltrata anche nell’ipotesi in cui l’autore di reato sia minore di anni 14, pur in presenza dell’esclusione dell’imputabilità per la minore età (cfr. 97 del codice penale). Infatti ogni valutazione in merito all’imputabilità, nel caso di minori autori di reati, è rimessa all’apprezzamento del Tribunale dei Minorenni.

La denuncia deve essere effettuata in forma scritta, anche nell’ipotesi in cui sia diretta contro ignoti. Nella denuncia andranno esposti i fatti in maniera chiara e completa senza alcuna valutazione sull’attendibilità del fatto. Pur non essendo previsto un termine per l’inoltro della denuncia evidentemente la stessa deve essere effettuata senza ritardo per non pregiudicare l’accertamento del fatto da parte della competente Autorità giudiziaria.

I docenti, pur titolari di un autonomo obbligo di denuncia, essendo dei pubblici ufficiali, assolvono a tale obbligo riferendo al Dirigente scolastico la notizia di reato appresa nell’esercizio delle rispettive funzioni.

Le norme di riferimento circa l’obbligo e le modalità di formalizzazione della denuncia sono contenute nel codice di procedura penale (artt. 331 e 332).

Nell’ipotesi invece di reati che sono perseguibili a querela di parte (art. 336 codice di procedura penale) non vi è obbligo di denuncia. In tali casi, la nota suggerisce, comunque, opera di informazione e sensibilizzazione nei confronti delle vittime di reati e delle rispettive famiglie sulla possibilità e opportunità di presentare querela.

Il Servizio istruzione trentino fornisce un dettagliato elenco di reati perseguibili d’ufficio e a querela di parte (vedi box) come ausilio al personale scolastico, per districarsi nell’assolvimento degli obblighi legati alla denuncia degli atti illeciti commessi da o verso gli alunni.

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