La mia ultima, recente esperienza di osservatore INVALSI ha confermato ancora una volta l’esistenza di criticità ripetutamente riscontrate nel pluriennale servizio svolto in questo ambito.

In primo luogo ho avvertito, in una parte del personale docente, il persistere di un atteggiamento contrario “per convinzione personale” alle prove da sottoporre agli alunni.

Si tratta di docenti che, oltre a considerare dette prove come strumento destinato a sminuire la funzione della scuola pubblica, ritengono che le stesse, pur non riuscendo a misurare la qualità dell’insegnamento, abbiano come fine ultimo la valutazione e la conseguente differenziazione retributiva dei docenti.

Questi insegnanti, inoltre, continuano ad incanalare la propria resistenza nel dubbio sulla legittimità (o meglio sull’obbligatorietà) delle prestazioni richieste ai docenti.

Le prove INVALSI
sono attività ordinarie di istituto

Per quanto concerne l’obbligo di svolgimento delle prove in questione, tale dubbio non dovrebbe, peraltro, essere sopravvissuto al dettato normativo, cioè alle disposizioni del D.Lgs. 62/2017 attuativo della Legge 107/2015, seguito dai due Decreti Ministeriali attuativi (n. 741 e n. 742 con relativi allegati, entrambi del 3/10/2017).

In questi documenti sono state introdotte importanti novità riguardo alla struttura delle prove INVALSI, novità entrate in vigore nel 2017/18 per il primo ciclo e nel 2018/19 per il secondo.

Nel Decreto sopra indicato (all’art. 4 , comma 3, e all’art. 7, comma 5) si dichiara testualmente: «Le azioni relative allo svolgimento delle rilevazioni nazionali costituiscono per le Istituzioni Scolastiche attività ordinarie d’Istituto».

La definizione “attività ordinarie d’Istituto” (già presente all’art. 51 del Decreto Legge 9/02/2012, n. 5, recante “Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo”) toglie ogni dubbio sulla non discrezionalità di scelta in merito al loro svolgimento, concetto già implicito, peraltro, nella Legge 59/1997 relativa all’Autonomia organizzativa e didattica delle Istituzioni scolastiche.

Quest’ultima fonte legislativa, nell’identificare come prerogativa dello Stato la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali da garantire sul territorio nazionale, determinava l’ineludibilità dell’azione di verifica del rispetto di tali condizioni.

Tale verifica va svolta attraverso azioni valutative sia interne all’Istituzione scolastica (previste al capo IV art. 21, comma 9 della sopra citata Legge 59/1997) sia esterne all’Istituzione stessa, com’è esplicitato nel D.P.R. 275/1999 che, all’art. 10, comma 1, recita testualmente: «Per la verifica del raggiungimento degli obiettivi di apprendimento e degli standard di qualità del servizio il Ministero della Pubblica Istruzione fissa metodi e scadenze per rilevazioni periodiche».

In base all’art. 3, lettera a del D.Lgs. 286/2004 l’organismo preposto alle «verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze e abilità degli studenti» è l’INVALSI.

Sulla scorta di quanto sin qui chiarito, è possibile ribadire anche gli obblighi dei docenti e del personale scolastico.

È del tutto evidente l’ineludibilità della collaborazione alla somministrazione delle prove, alla distribuzione delle stesse, alla vigilanza durante lo svolgimento, alla raccolta e la successiva spedizione: queste attività, svolte all’interno dell’orario di servizio, non possono infatti configurarsi come “carichi aggiuntivi”.

Difficoltà per le prove computer based

Quanto alla correzione, il dilemma potrebbe rimanere unicamente per la scuola primaria, in quanto negli altri ordini di scuola le prove si svolgono in modalità definita “computer based” e le risposte vengono trasmesse automaticamente al sistema centralizzato.

Per inciso, l’informatizzazione delle procedure fa emergere il problema della diffusa mancanza, in una notevole percentuale di scuole italiane, di quella che si può definire una “connessione adeguata”.

Tale carenza, notevolmente condizionante, crea difficoltà organizzative anche in considerazione di un ulteriore fattore: il numero di computer disponibili e funzionanti.

Ho sperimentato personalmente i disagi che comporta tale situazione: le classi vengono suddivise in gruppi di alunni che si avvicendano a rotazione nello svolgimento delle prove fino alla conclusione, per tutti, delle prove stesse.

Considerando la durata di ogni singolo test e il fatto che, all’interno di una stessa classe la prova può avvenire in orari o giorni diversi, il risultato è quello di bloccare, di fatto, ogni altra attività didattica per intere giornate.

Si sottolinea che, mentre in precedenza tutta la classe concludeva simultaneamente la prova con la consegna ad un’ora prestabilita uguale per tutti, con l’attuale modalità “computer based” lo studente, dopo essere entrato nel sistema con le proprie credenziali, svolge autonomamente la prova assegnata individualmente (diversa da quella del suo “compagno di laboratorio”) e gestisce il tempo a disposizione, decidendo se utilizzarlo totalmente o terminare anticipatamente.

Questa evenienza fa sì che l’alternanza dei ragazzi ai PC non possa essere adeguatamente programmata o che, per rispettare un’organizzazione già impostata, si creino degli spazi di inutilizzo delle attrezzature con conseguente dilatazione dei tempi.

Le difficoltà sin qui descritte si complicano ulteriormente per le cosiddette “classi campione”, in cui è presente un osservatore esterno, il quale è tenuto a rispettare un protocollo che prevede la definizione preliminare dei turni con l’indicazione dei nominativi di alunni e docenti somministratori e/o preposti alla vigilanza.

Correzione dei test e obblighi dei docenti

Tornando agli obblighi dei docenti in tema di correzione dei test, si ribadisce che la modalità cartacea di somministrazione è stata mantenuta per la sola scuola primaria.

Ciò significa che i docenti di questo ordine di scuola rimangono incaricati dell’immissione dei dati e della correzione delle domande a risposta aperta, operazioni che, secondo alcuni, comportano oneri aggiuntivi per gli insegnanti stessi.

Tuttavia, rileggendo la frase già citata presente nel D.Lgs. 62/2017, si deduce che tutte le attività relative allo svolgimento delle prove INVALSI sono attività ordinarie di istituto e, di conseguenza, comportano l’obbligo, da parte dei docenti, non solo di somministrazione ma anche di tabulazione e correzione delle prove.

Tale interpretazione trova conferma nella nota n. 2992 emanata dal MIUR il 20/04/2017, che precisa quanto segue:

In linea di coerenza anche il piano annuale delle attività, predisposto dal Dirigente scolastico e deliberato dal Collegio dei Docenti, ai sensi dell’art 28, comma 4, del vigente C.C.N.L. non può non contemplare tra gli impegni aggiuntivi dei docenti, anche se a carattere ricorrente, le attività di somministrazione e correzione delle prove INVALSI.

Il ragionamento sin qui condotto porta quindi ad escludere la possibilità di retribuzione delle attività in questione in termini di “ore aggiuntive” da inserire nella contrattazione con la RSU: le predette attività di tabulazione e correzione (al pari di quelle di somministrazione) devono rientrare tra le “attività ordinarie d’Istituto” e costituiscono un impegno non solo per i docenti ma per tutta l’Istituzione scolastica, riferendosi anche alle attività svolte dalle segreterie.

Nonostante queste chiare indicazioni, esistono ancora correnti di pensiero che ritengono possibile un trattamento economico delle attività di tabulazione/correzione delle prove INVALSI, partendo dal presupposto che esse debbano essere collegialmente deliberate e inserite nel PTOF come tutte le attività progettuali della scuola che prevedono un compenso per il personale che le realizza.

Secondo tale impostazione, qualora gli organi collegiali della scuola (Collegio dei Docenti e Consigli di Classe) non riconoscano con apposita delibera che i risultati delle prove INVALSI portino un contributo significativo nella valutazione degli alunni, le scuole hanno soltanto l’obbligo di organizzare le prove durante l’orario di servizio, sospendendo l’attività didattica e somministrando le stesse, mentre l´attività di correzione non può essere inserita nell’ambito della cosiddetta “funzione docente”.

Di conseguenza, sembrerebbe anche possibile eludere – almeno parzialmente – gli impegni richiesti dallo svolgimento delle prove INVALSI facendo appello alla libertà di insegnamento come libertà di scelta, da parte dei docenti, dei metodi di valutazione degli alunni.

Risultati e ricadute nella vita scolastica

Quest’ultimo pensiero – riportato a conclusione del paragrafo precedente, e che personalmente non mi sento di condividere né nella forma né nella sostanza – ci porta ad affrontare un’altra delle criticità che ho rilevato da tempo in questo ambito, non nella veste di osservatore ma in quella di Dirigente scolastico: la ricaduta dei risultati delle prove INVALSI nella gestione della scuola e dei processi di insegnamento e apprendimento.

Infatti, nella maggior parte dei casi, questi dati giocano un ruolo significativo solo nelle operazioni di valutazione dell’Istituzione Scolastica presenti nell’impianto di costruzione del RAV, mentre i medesimi dati non trovano ancora un reale e diffuso utilizzo nella pratica valutativa degli apprendimenti degli alunni.

In altre parole, anche qualora la scuola riconosca di “essere tenuta” a svolgere l’attività INVALSI, tale attività resta quasi totalmente distinta e autonoma rispetto alla quotidianità della vita scolastica.

La fase di analisi dei risultati stessi si limita generalmente ad iniziative intraprese da singoli docenti o da piccoli gruppi che non raggiungono il piano della collegialità.

Ciò accade perché – oltre alla presenza di insegnanti che, come s’è già detto in apertura, continuano a intravvedere nelle prove INVALSI un tentativo di “controllo” sul loro lavoro o una “schedatura di massa” – si rileva spesso un sovraccarico di impegno da parte del corpo docente che non consente di rintracciare spazi e tempi adeguati per riflettere sui risultati di tale azione.

L’interesse limitato per l’utilizzo dei risultati non trova tuttavia come unica causa la contrarietà o semplicemente lo scarso interesse da parte dei docenti, ma è condizionato anche da altri aspetti.

Uno fra tutti: nel già più volte richiamato D.Lgs. 62/2017 si dichiara che le prove INVALSI non sono più parte integrante dell’esame di Stato, ma rappresentano un momento distinto del processo valutativo conclusivo del primo ciclo di istruzione.

Anche se la partecipazione ai test costituisce requisito indispensabile per l’ammissione all’esame di Stato e inoltre si dispone, nell’art. 21, comma 2 del suddetto Decreto che l’esito delle prove INVALSI, espresso in forma descrittiva, venga inserito nel curriculum dello studente, nel diploma appare unicamente la votazione riportata all’esame.

In considerazione di ciò, gli stessi studenti spesso non avvertono l’importanza di rispondere correttamente, non riconoscendo come ulteriore valore il fatto che i test INVALSI siano finalizzati a valutare i livelli di apprendimento nella scuola italiana.

Come possono essere utilizzati i risultati?

A questo punto, è bene analizzare gli aspetti veicolati dai dati relativi alle prove per comprendere gli scopi per i quali possono essere utilizzati.

Va precisato che, prima della restituzione dei risultati alle scuole, l’INVALSI effettua una correzione del cosiddetto cheating, fenomeno riguardante eventi impropri nel corso della somministrazione (come le risposte corrette per opera di interventi esterni) che emergono nell’ambito del controllo statistico sui dati.

Questi ultimi, inoltre, nel momento in cui sono resi disponibili, rispecchiano i livelli raggiunti dagli alunni sia in termini di risultati osservati (o grezzi), sia in termini di indicatori di “valore aggiunto”.

Il valore aggiunto rappresenta la misura dell’apporto della scuola al livello di apprendimento conseguito dagli alunni nelle prove INVALSI, tenendo conto della preparazione già acquisita dagli alunni in entrata, delle caratteristiche degli stessi e degli aspetti (positivi o negativi) dell’ambiente in cui opera la scuola.

Il materiale fornito può esplicitare l’andamento complessivo dei livelli di apprendimento degli studenti della scuola rispetto alla media dell’Italia, dell’area geografica e della regione di appartenenza.

Il primo utilizzo di questi elementi è di pertinenza del Dirigente scolastico, responsabile del processo di miglioramento avviato nell’Istituzione Scolastica che rappresenta. Le prove standardizzate servono, infatti, ad accertare l’efficacia del lavoro svolto dalla scuola in termini di raggiungimento, da parte dei minori, del livello di competenze a cui possono aspirare considerando i livelli di partenza variabili in rapporto al contesto socio-economico.

Per valutare tale efficacia il Dirigente scolastico deve effettuare una comparazione (tenendo conto del valore aggiunto di scuola) tra il livello di apprendimento medio rilevato nella propria Istituzione, quello locale e quello nazionale, considerando altresì il grado di omogeneità degli apprendimenti riscontrati, anche in considerazione delle differenze tra classi.

Altre informazioni (es. percentuale di alunni con risultati inferiori o superiori rispetto alla media nazionale) potrebbero risultare propedeutiche ad una riflessione critica interna all’Istituzione scolastica, nell’ottica della condivisione collegiale del percorso di miglioramento, che per essere produttivo non può limitarsi ad un lavoro realizzato esclusivamente dal Dirigente scolastico e/o sostenuto da una Commissione ristretta di docenti.

L’utilizzo delle informazioni trasmesse può trovare, tuttavia, in caso di risultati soddisfacenti, uno spazio adeguato in occasione nelle cosiddette “presentazioni delle scuole” in vista delle iscrizioni. In questi casi le Istituzioni scolastiche sono più disponibili a riconoscere un ruolo ai dati INVALSI anche qualora i docenti non siano portati abitualmente a trarre dagli stessi elementi utili per completare la verifica in merito all’andamento delle singole classi e del singolo studente.

Certificazione delle competenze

Quest’ultima osservazione, parlando di opportunità non adeguatamente sfruttate, ci porta a esaminare la questione relativa alla certificazione delle competenze rilasciata al termine del primo ciclo.

Dal momento che le prove nazionali fanno riferimento ai traguardi di sviluppo delle competenze previsti dalle Indicazioni per il curricolo, l’INVALSI ha il compito di definire un repertorio di descrittori per integrare la certificazione in questione con due nuove sezioni, riguardanti rispettivamente il livello raggiunto nelle prove di italiano e matematica e le abilità raggiunte nella comprensione e nell’utilizzo della lingua inglese.

Parlare di certificazione delle competenze significa entrare in un terreno “minato” o forse ancora “quasi inesplorato”, nonostante le scuole debbano garantire ormai da anni il rilascio del documento che, peraltro, viene spesso compilato ricodificando e/o assemblando i voti riportati nelle varie materie di studio.

La C.M. del 13/02/2015, n. 3 che parla di “Adozione sperimentale dei nuovi modelli nazionali di certificazione delle competenze nelle scuole del primo ciclo di istruzione” dichiara testualmente:

La certificazione delle competenze non è sostitutiva delle attuali modalità di valutazione e attestazione giuridica dei risultati scolastici (ammissione alla classe successiva, rilascio di un titolo di studio finale ecc.), ma accompagna e integra tali strumenti normativi, accentuando il carattere informativo e descrittivo del quadro delle competenze acquisite dagli allievi, ancorate a precisi indicatori dei risultati di apprendimento attesi. La certificazione si riferisce a conoscenze, abilità e competenze, in sintonia con i dispositivi previsti a livello di Unione Europea per le “competenze chiave per l’apprendimento permanente” (2006) e per le qualificazioni (EQF, 2008) recepite nell’ordinamento giuridico italiano.

Valutare per competenze è quindi un’operazione possibile e credibile solo nel caso che l’approccio didattico preveda esperienze di didattica per competenze.

L’insegnamento disciplinare tradizionalmente inteso, infatti, esclude aspetti dell’apprendimento degli alunni che vengono invece evidenziati dalle prove INVALSI, nelle quali può accadere che gli studenti che abitualmente riportano le migliori valutazioni ottengano risultati non altrettanto soddisfacenti e viceversa coloro che non brillano per l’impegno nello studio manifestino un miglior livello di competenza.

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