Sinergie di Scuola

In data 11 marzo 2019 è stata depositata l’Ordinanza n. 6972/2019 della Prima sez. civ. della Corte di Cassazione, che ha rimesso al Primo Presidente della Suprema Corte gli atti oggetto di giudizio per dare risposta al presente quesito: è possibile che i ragazzi frequentanti la scuola dell’obbligo consumino pasti portati da casa, invece che fruire del servizio mensa?

Le premesse

Iniziato l’a.s. 2014/2015, non pochi genitori (150) di alunni delle scuole comunali elementari e medie nel Comune di Torino convennero in giudizio lo stesso Comune e il MIUR per fare accertare:

  1. il loro diritto di scegliere per i propri figli tra il servizio mensa e il “panino da casa”;
  2. una volta scelto il pasto domestico, il diritto dei propri figli di consumarlo all’interno dei locali adibiti a mensa scolastica e nell’orario destinato alla refezione.

Il Tribunale di Torino, investito in via d’urgenza della questione, eccepì l’insussistenza di un diritto soggettivo come quello richiesto, motivando sull’inesistenza:

  1. di un diritto alla prestazione del servizio mensa con modalità diverse da quelle previste dalla normativa vigente; ovvero,
  2. di un servizio alternativo interno alle scuole per coloro che intendono consumare il pasto domestico; ovvero,
  3. di un diritto alla stessa istituzione del servizio mensa.

La motivazione “forte” della decisone del Giudice torinese risiedeva nella considerazione che le famiglie sono libere di optare per il tempo pieno o prolungato, comprensivo del servizio mensa, con possibilità di fare uscire i figli da scuola durante l’orario della refezione e quindi di farli rientrare per le attività pomeridiane.

I genitori proposero ricorso, che venne parzialmente accolto dalla Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 1049 del 21/06/2016, che ha accertato il diritto dei genitori di optare per il “panino da casa”, in luogo della refezione scolastica, da consumare nelle singole scuole e nell’orario destinato alla refezione.

La Corte però, e qui la parzialità dell’accoglimento, si è astenuta dal dettare «le modalità pratiche per dare concreta attuazione alla sentenza» stabilito che il riconosciuto diritto non può tradursi in una indiscriminata scelta per i ragazzi di consumare il pasto domestico presso la mensa scolastica, poiché questo comporterebbe «l’adozione di una serie di misure organizzative, anche in funzione degli aspetti igienico/sanitari, in relazione alla specifica situazione logistica dei singoli istituti interessati»; valutazioni di natura discrezionale riservate alla P.A.

La Corte d’Appello torinese evidenziava che la nozione di istruzione non si esaurisce con la sola attività di insegnamento, ma comprende anche il momento della formazione che si realizza mediante lo svolgimento di attività didattiche ed educative, tra le quali rientra il momento dell’erogazione del pasto; ai sensi della circolare MIUR n. 29 del 5/03/2004 infatti, questo rientra nel cd. “tempo scuola”, secondo la sua triplice segmentazione oraria: orario obbligatorio/orario facoltativo/orario destinato all’erogazione del servizio di mensa-dopo mensa, che fornisce un modello unitario del processo educativo da definire nel Piano dell’offerta formativa.

In buona sostanza, rimanere a scuola durante il cd. “tempo mensa” è un momento di condivisione inerente al diritto all’istruzione, anche se non vi è un obbligo della scuola di istituire il servizio mensa, che dunque rimane pur sempre un servizio a domanda individuale e pertanto facoltativo.

Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso, in via principale, il Comune di Torino e, in via incidentale, il Ministero dell’istruzione, cui si sono opposti i genitori con controricorso.

Si approda in Cassazione: cosa sostiene la PA?

Secondo il Comune di Torino, la Corte d’Appello avrebbe erroneamente inteso la nozione di “mensa scolastica” come generico consumo in ambito scolastico di cibo preparato individualmente, anziché come servizio pubblico, a domanda individuale, organizzato dall’amministrazione comunale mediante l’erogazione di pasti collettivi confezionati secondo regole predefinite, anche sotto il profilo della sicurezza e tracciabilità, in locali igienicamente idonei, considerato anche che l’offerta formativa comprensiva del servizio mensa è elaborata dalle scuole e condivisa dalle famiglie e la sua attuazione verrebbe pregiudicata se si ammettesse la possibilità di introdurre varianti individuali.

Secondo il MIUR invece, la Corte d’Appello erroneamente non avrebbe considerato che il vigente ordinamento scolastico non prevede un “diritto al tempo pieno” nelle scuole primaria e secondaria di primo grado, ma la facoltà delle scuole di attuare il tempo pieno e il tempo prolungato, e ciò in quanto il “tempo mensa”, pur se compreso nel “tempo scuola”, rimane comunque distinto dall’attività didattica. Posto dunque che il tempo pieno costituisce solo un’opzione discrezionale che le istituzioni scolastiche hanno la facoltà di attivare e le famiglie di scegliere, una volta operata la scelta, le famiglie hanno l’obbligo di aderire al progetto formativo prescelto, così come proposto e organizzato dalla scuola, in tutti i suoi elementi, incluso il “tempo mensa”.

Il MIUR inoltre censura la sentenza appellata per non avere valutato le controindicazioni sanitarie di scelte alimentari fuori dal controllo dell’Istituzione scolastica; peraltro, il consumo del “panino da casa” nei locali scolastici si risolverebbe in una prestazione gratuita per i beneficiari ma onerosa per la popolazione scolastica, discriminando per l’effetto a livello economico le famiglie che pagano il contributo per il servizio mensa di cui si avvalgono.

... e i genitori?

L’azione giudiziaria portata avanti dai genitori, sin dal primo grado di giudizio, è finalizzata all’accertamento del diritto alla cd. autorefezione nell’orario e nei locali adibiti alla mensa scolastica.

Posto che l’istruzione pubblica inferiore è obbligatoria e gratuita e comprende il diritto di fruire delle attività scolastiche che si svolgono nel pomeriggio, nel caso in cui sia attivato il cd. tempo pieno e/o prolungato, e atteso che il cd. “tempo mensa” costituisce un momento importante di condivisione e socializzazione che rientra nel cd. “tempo scuola” (cfr. D.P.R. 89/2009 art. 5, e D.Lgs. 297/1994 art. 130, comma 2, lett. b), per logica coerenza si dovrebbe riconoscere anche il diritto degli alunni di portare cibi da casa e consumarli a scuola, senza costringerli a usufruire del servizio di mensa scolastica da essa erogato, il quale altrimenti da facoltativo, e attivabile a domanda individuale (cfr. D.Lgs. 63/2017 art. 6), diverrebbe obbligatorio; diversamente gli alunni si vedrebbero costretti a rinunciare ai contenuti educativi dell’offerta formativa scolastica connessa all’opzione “tempo pieno” o “prolungato”.

Peraltro, così come è possibile ai genitori di religione islamica di scegliere gli alimenti da escludere dal menù dei propri figli, e parimenti così come varie amministrazioni comunali elaborano diete speciali per ragazzi vegetariani o vegani, per parità di trattamento dovrebbe anche essere consentito di rinunciare al servizio mensa tout court; non a caso il MIUR, con nota n. 348 del 3/03/2017, rivolta agli USR, muovendo proprio dal riconoscimento in via giurisprudenziale alle famiglie, del «diritto di usufruire in modo parziale del tempo mensa attraverso la consumazione negli stessi locali destinati alla refezione scolastica del pasto preparato in ambito domestico in alternativa al servizio mensa erogato dalla scuola», e pur dando conto della intenzione di opporsi alle dette pronunce e dei ricorsi pendenti sul tema presso la Corte di Cassazione, fa presente che l’indicazione concordata insieme al Ministero della salute è quella «di adottare, in presenza di alunni o studenti ammessi a consumare cibi preparati da casa, precauzioni analoghe a quelle adottate nell’ipotesi di somministrazione dei cd pasti speciali».

I precedenti

La Corte di Cassazione cita il precedente del Comune di Benevento: con sentenza n. 5156/2018 il Consiglio di Stato confermava la sentenza del TAR Campania/Napoli n. 1566/2018, che aveva annullato il regolamento comunale del servizio di ristorazione scolastica, nella parte in cui vietava la permanenza nei locali scolastici agli alunni delle scuole materne ed elementari che intendevano consumare cibi portati da casa o acquistati autonomamente, non essendo loro consentito di consumare pasti diversi da quelli forniti dall’impresa appaltatrice del servizio, sul presupposto che «il consumo di pasti confezionati a domicilio o comunque acquistati autonomamente potrebbe rappresentare un comportamento non corretto dal punto di vista nutrizionale, oltre che una possibile fonte di rischio igienico sanitario».

Il supremo organo della Giustizia amministrativa evidenziava che il divieto di consumare il pasto portato da casa limita una naturale facoltà dell’individuo – vale a dire la scelta alimentare. Del resto, fa notare il Consiglio di Stato, non si comprende il motivo per cui gli asseriti problemi igienico-sanitari nonché nutrizionali non emergano laddove gli alunni durante la ricreazione consumino merende portate da casa.

L’intervento delle Sezioni Unite in conclusione è stato richiesto al fine di stabilire:

  1. se sussista il diritto, soggettivo perfetto e dunque suscettibile di ottemperanza da parte della P.A., di poter scegliere liberamente tra il servizio mensa e il “panino da casa”;
  2. se, scelto il “panino da casa”, sussista il diritto di consumarlo nei locali della scuola e comunque nell’orario destinato alla refezione scolastica.

(le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione)

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