Sinergie di Scuola

La materia delle incompatibilità nel pubblico impiego, di sicuro interesse per le pubbliche amministrazioni, si arricchisce costantemente di nuovi casi e di diverse interpretazioni.

Preliminarmente, si rammenta che il fondamento del divieto poggia su una caratteristica specifica del pubblico impiegato, che è «al servizio esclusivo della Nazione» (art. 98 della Costituzione).

La materia è inoltre regolata:

  • principalmente dall’art. 53 del D.Lgs. 165/2001, che detta le norme fondamentali sul punto, vigenti anche per il personale scolastico (compresi tempo determinato e part-time); il comma 5 dell’articolo impone che il Dirigente, nel conferire gli incarichi e autorizzare le altre attività, debba valutare ed escludere il conflitto di interessi (anche potenziale), al fine di garantire il buon andamento dell’azione amministrativa. È dovere del Dirigente scolastico valutare le richieste di autorizzazione/comunicazione del personale dipendente, riservandosi la possibilità di negare l’autorizzazione, con adeguata motivazione;
  • per il solo personale docente, dal D.Lgs. 297/1994, art. 508, che prevede un regime di favore per cui, con determinati limiti, sono consentite anche le lezioni private e le attività libero/professionali;
  • dalla Legge 662/1996, art. 1, commi da 56 a 61, in particolare per i rapporti di lavoro a tempo parziale.

Le attività ulteriori svolte senza autorizzazione possono configurare danno erariale; in questo caso il comma 7 dell’art. 53 citato infatti prevede espressamente che «In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti». Il successivo comma 7-bis aggiunge, poi, che «L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti».

È questo un caso, raro nel nostro sistema di giustizia contabile, di “tipizzazione” del danno, ovvero di individuazione specifica del quantum da restituire.

Il caso del giornalismo

L’art. 53, comma 6 del D.Lgs. 165/2001, sopra citato, prevede per una serie di attività un regime di maggior favore, ovvero la possibilità di svolgere una seconda occupazione anche senza autorizzazione; si reputa comunque necessario avvisare con comunicazione formale il Dirigente, sia per consentire la valutazione di assenza di conflitto di interessi e rispetto del buon andamento dell’amministrazione, sia per ottemperare al dettato dell’art. 6 del D.P.R. 62/2013, ovvero il Codice di comportamento valevole per tutti i dipendenti pubblici, che impone la «comunicazione degli interessi finanziari».

Sul punto dell’attività giornalistica, potenzialmente ricompresa in senso lato dal comma 6 dell’art. 53 che annovera tra le sopraddette attività le «collaborazioni a giornali e riviste», una recente sentenza della Corte dei conti interviene con una interpretazione degna di nota.

La sentenza 253/2022 della sezione Lombardia consente di operare una disamina sull’attività professionale dei pubblici dipendenti e dei limiti entro cui la stessa possa espletarsi anche in relazione alle attività consentite ex lege, esercitabili senza autorizzazione della Pubblica Amministrazione.

La pronuncia interviene sul caso di un pubblico dipendente che, a seguito di accertamenti della Guardia di finanza (su segnalazione dello stesso Ministero), venne scoperto ad esercitare l’attività di giornalista professionista dapprima a tempo determinato e successivamente indeterminato.

Il dipendente non aveva mai chiesto autorizzazione, ma si era limitato a comunicare l’attività ai sensi dell’art. 53, comma 6 sopra citato.

La Corte è giunta a condannare l’impiegato, a causa dello «svolgimento e la conseguente percezione di compensi della contestata attività, realizzata mediante la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato, in palese regime di incompatibilità con la qualifica di funzionario pubblico e in assenza di alcuna richiesta inviata all’amministrazione di appartenenza».

L’attività, svolta per otto anni, è stata ritenuta condotta in violazione di legge anche con dolo, proprio per il lungo tempo trascorso in regime di illegittimità costante, per contrasto con l’art. 60 del D.P.R. 3/1957, richiamato espressamente dall’art. 53.

In tale evenienza, come stabilito dall’art. 53, comma 7, il danno da rifondere consiste nei compensi percepiti in tutto il periodo oggetto di contestazione; il quantum è predefinito dalla legge e parametrato al compenso percepito per il lavoro svolto.

«Al riguardo, infatti” precisa la Corte «l’art. 53, comma 7 del D.Lgs. 165/2001 prevede espressamente che i compensi erogati in assenza di autorizzazione devono essere versati presso l’amministrazione di appartenenza del dipendente, non rilevando, pertanto, l’eventuale corretto e lodevole assolvimento dei compiti istituzionali da parte del convenuto, in questa sede, fra l’altro, neanche dimostrato».

La Procura sottolinea che l’attività sarebbe stata svolta in assenza di autorizzazione, ma che la stessa sarebbe stata comunque «inutiliter data», poiché la seconda attività in regime di lavoro subordinato (e quindi non occasionale come comunque implicitamente consentito dalla tipologia di cui all’art. 53, comma 6) comporta l’applicazione della disciplina prevista per gli incarichi comunque non autorizzabili.

È qui interessante rilevare dalla sentenza il principio per cui la disciplina del divieto di svolgere ulteriori attività di tipo subordinato e a tempo indeterminato superi la deroga per le attività di informazione, libera manifestazione di pensiero, collaborazioni con giornali e riviste, astrattamente consentibili ex lege se rientranti nell’alveo dell’occasionalità e, come appunto previsto dalla disciplina vigente, delle collaborazioni.

Quanto descritto sembra superare anche il regime di maggior favore per il personale docente riconosciuto con le disposizioni più elastiche previste dall’art. 508 del T.U. 297/1994, che al comma 10 prevede i limiti alle seconde attività, e al comma 15 consente, sempre previa autorizzazione, «l’esercizio di libere professioni che non siano di pregiudizio all’assolvimento di tutte le attività inerenti alla funzione docente e siano compatibili con l’orario di insegnamento e di servizio».

Infatti, il medesimo articolo al comma 10 comunque inibisce anche ai docenti l’esercizio di impiego alle dipendenze di privati, disponendo testualmente «Il personale di cui al presente titolo non può esercitare attività commerciale, industriale e professionale, né può assumere o mantenere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società od enti per i quali la nomina è riservata allo Stato e sia intervenuta l’autorizzazione del Ministero della pubblica istruzione».

Il caso del docente Youtuber

Alla luce di quanto esposto sarà certamente interessante seguire gli sviluppi, disciplinari ed erariali, del recente caso riportato dagli organi di stampa del docente titolare di vari canali YouTube, con cui si adopera in attività di divulgazione e che hanno comportato ingenti visualizzazioni e consistenti guadagni attraverso, sembra, una società appositamente creata.

In disparte del merito della attività e in attesa di conoscere, se divulgati, i dettagli della vicenda, l’intervento della magistratura erariale certamente affronterà il caso sotto i diversi aspetti della attività di divulgazione di pensiero tramite canali social, ancor non affrontata in modo consolidato e certamente dagli sviluppi, dal punto di vista disciplinare ed erariale, interessanti.

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