Sinergie di Scuola

Il termine mobbing deriva dal verbo inglese “to mob” che significa assediare o circondare, in una accezione negativa.

Il termine diviene conosciuto negli ultimi decenni negli ambienti di lavoro, ed è utilizzato oggi, nel lessico quotidiano delle realtà lavorative, forse troppo frequentemente e spesso senza attinenza con le possibilità offerte dalla legge.

In mancanza di una definizione normativa certa, infatti, è stata la giurisprudenza (ordinaria, contabile e amministrativa) che, con molteplici pronunce, ha definito la fattispecie e indicato i limiti e le possibilità di tutela. Queste possibilità, come vedremo, sono di difficile configurazione.

È invece comune, complici la spersonalizzazione dei rapporti di lavoro, la crisi economica e la distorta conoscenza dei diritti (sottoposti a costante erosione), la percezione di ambienti di lavoro ostili e nemici, di un vissuto quotidiano faticoso e deprimente.

Sembra utile, quindi, operare una breve ricognizione della configurazione della fattispecie (peraltro in sede di giudizio molto spesso riguardante proprio le scuole), che è produttiva di effetti di tipo giuridico (quali il danno erariale) e di tipo “aziendale” (in termini di minore efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa).

Per quanto riguarda esclusivamente i dirigenti, è utile ricordare una recente disposizione, contenuta nell’art. 13 d.P.R. 62/2013, ovvero il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma del quale «Il dirigente cura, compatibilmente con le risorse disponibili, il benessere organizzativo nella struttura a cui è preposto, favorendo l’instaurarsi di rapporti cordiali e rispettosi tra i collaboratori, assume iniziative finalizzate alla circolazione delle informazioni, alla formazione e all’aggiornamento del personale, all’inclusione e alla valorizzazione delle differenze di genere, di età e di condizioni personali».

Questa disposizione costituisce un elemento a favore del perseguimento del benessere nei luoghi di lavoro, peraltro codificato per legge, in una materia che è, lo ricordiamo, quasi esclusivamente trattata dalla giurisprudenza.

Configurazione giurisprudenziale

Un recentissima pronuncia del Consiglio di Stato, sez. VI del 4/11/2014, n. 5419, ci consente di ricostruire la fattispecie. Nel caso in questione, il TAR aveva rigettato il ricorso di una dipendente di una azienda ospedaliera; il Consiglio di Stato respinge l’appello e conferma il primo grado. La ricorrente aveva lamentato danni conseguenti a mobbing per ipotesi di demansionamento (anche questa obiezione è ricorrente nei luoghi di lavoro).

Dalla sentenza, conforme a numerose altre pronunce della giurisprudenza sul tema, si possono trarre importanti caratteri della fattispecie, che possiamo riassumere come di seguito.

Cosa si intende per mobbing

La magistratura amministrativa, in questo caso rammenta che «[...] per mobbing, in assenza di una definizione normativa, si intende normalmente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo». La caratteristica della condotta continuata nel tempo e complessiva pone l’accento sull’insufficienza di singoli episodi non collegati tra di loro a configurare ipotesi di mobbing.


Prove a carico del lavoratore

Gravosi e specifici sono gli oneri a carico del ricorrente che voglia intraprendere un giudizio in questo campo. Continua il Consiglio di Stato chiarendo che il «lavoratore [...] non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito [...] ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il Giudice Amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione». Nello specifico quindi si rammenta che:

  1. gli elementi di prova vanno precostituiti: tutti i provvedimenti che si ritengono mobbizzanti, sia quelli organizzativi che quelli reputati vessatori in sé, comprese le ingiurie e le minacce per intenderci, debbono essere oggetto di autonomo rilievo e impugnativa, in modo da costituire il precedente per poter giustificare una futura causa per mobbing;
  2. occorre dimostrare la lesione della personalità e del proprio stato di salute: il danno da mobbing deve essere un danno certo e provato, anche e soprattutto tramite certificati medici atti a suffragare uno stato di salute compromesso, e a far supporre un nesso eziologico con i comportamenti ritenuti mobbizzanti;
  3. l’onere della prova grava sul lavoratore: rammenta la magistratura amministrativa, ricordando anche la Cassazione, che «l’onere della prova grava sul lavoratore, potendo esso essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici, tali da far ritenere con sufficiente certezza l’intento di rappresaglia, il quale deve aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione del provvedimento illegittimo»;
  4. occorre sempre un nesso eziologico: non sono sufficienti isolati, anche se numerosi, epiosodi, ma occorre dimostrare la sistematicità dell’intento persecutorio e la sua stretta connessione con il danno causato.

Il mobbing va distinto dalle ordinarie difficoltà sul luogo di lavoro

Continua il Consiglio di Stato: «non si ravvisano gli estremi del mobbing nell’accadimento di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà persecutoria essendo in particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche. In particolare nel lavoro “pubblico”, per configurarsi una condotta di mobbing, è necessario un disegno persecutorio tale da rendere tutti gli atti dell’amministrazione, compiuti in esecuzione di tale sovrastante disegno, non funzionali all’interesse generale a cui sono normalmente diretti». Si rammenti che il perseguimento dell’armonia lavorativa, di un comportamento corretto e leale negli ambienti di lavoro è obbligo di tutti i dipendenti, prescritto dal vigente Codice di comportamento sopra citato.


Occorre una valutazione complessiva della condotta

Elemento ribadito da un orientamento costante della giurisprudenza. Ricorda il Consiglio di Stato che «la ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante deve essere esclusa quante volte la valutazione complessiva dell’insieme di circostanze addotte (e accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singolarmente, elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di ordinaria verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro [...] è necessario, anche in ragione della indeterminatezza normativa della figura, attendere ad una valutazione complessiva ed unitaria degli episodi lamentati dal lavoratore, da apprezzare per accertare tra l’altro, da un lato, l’idoneità offensiva della condotta datoriale (desumibile dalle sue caratteristiche di persecuzione e discriminazione) e, dall’altro, la connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della condotta».

Mobbing e danno erariale

Anche la Corte dei Conti è intervenuta sul tema del mobbing, riconoscendo lo stesso come produttivo di danno erariale.

Con la sentenza 135/2013, la sezione giurisdizionale del Piemonte riconobbe infatti il fondamento dell’azione di rivalsa dello Stato, nella specie Ministero Istruzione, Università e Ricerca, nei confronti di un Dirigente scolastico che si era reso responsabile di condotta mobbizzante nei confronti di un dipendente. La sentenza ripercorre una situazione di grave disagio patito da una direttrice amministrativa vittima di scorrettezze professionali, ma anche vere e proprie denigrazioni pubbliche, addirittura con uso di turpiloquio da parte del dirigente e inviti al trasferimento in altra sede. La lettura della sentenza è utile per avere ancora una volta un quadro preciso di quella che è individuabile come condotta mobbizzante, in questo caso in ambito scolastico, come frutto di condotte gravi, reiterate e produttive di dimostrato danno alla salute.

Ci preme sottolineare l’esito di questa sentenza, in base alla quale il mobbing è riconosciuto produttivo di danno erariale; qualora il datore di lavoro pubblico e lo Stato vengano condannati a rifondere i danni patiti dai dipendenti vittime di mobbing, infatti, è conseguenza naturale l’azione di rivalsa nei confronti del dipendente individuato come responsabile, se riconosciuto tale.

Ricordiamo che la responsabilità erariale viene riconosciuta (come avvenuto in questo caso) in caso di atti commessi con dolo e colpa grave e sussistenza di nesso di causalità tra danno e condotta antigiuridica.

Il danno risarcibile

Richiamiamo infine la sentenza n. 687 del 15/01/2014, con la quale la Corte di Cassazione chiarisce, in un caso di conferma di fattispecie di mobbing a danno di una dipendente comunale, le caratteristiche del danno risarcibile.

La Corte infatti ricorda che la liquidazione del danno non patrimoniale (quale quello derivante da mobbing), deve essere complessiva, in modo a coprire l’intero pregiudizio subito; non può quindi essere suddivisa in modo da risarcire più volte le stesse conseguenze pregiudizievoli della condotta mobbizzante. Per la Cassazione quindi le due ipotesi di danno morale e danno biologico debbono essere ricondotte ad una unica categoria di danno qualora non siano adeguatamente motivate le ragioni per la suddivisione (e conseguente aumento della entità della liquidazione).

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