Sinergie di Scuola

La sentenza della quale ci occupiamo in questo numero di Sinergie è una delle poche della Corte di Cassazione sulla quale nutro qualche dubbio.

I giudici del Palazzaccio, infatti, hanno stabilito nella sentenza n. 749 del 15/01/2018, che l’insegnante colpita ad un occhio dal tappo di una bottiglia di spumante aperta da un alunno della classe quinta di un liceo classico di Pesaro, mentre durante l’orario di lezione veniva celebrato il centesimo giorno prima dell’esame di maturità, non avesse diritto al risarcimento del danno per infortunio sul lavoro.

Peraltro la Cassazione ha confermato la pronuncia di appello, che aveva statuito che sussisteva la responsabilità del datore di lavoro, ex art. 2087 c.c., solo quando fosse aggravato il tasso di rischio e di pericolosità ricollegato alla natura dell’attività lavorativa del dipendente.

Nella specie, ciò non si era verificato, atteso che il fatto era avvenuto in una circostanza che non evidenziava, a parere dei giudici, aggravamenti di rischio, e inoltre la condotta dell’alunno era abnorme e non prevedibile, poiché lo studente “incriminato” si era avvicinato all’insegnante a breve distanza, agitando la bottiglia di spumante dalla quale era schizzato il tappo che la aveva colpita al volto. Dunque, non vi era stato aggravamento del rischio insito nell’attività lavorativa, ma solo un “incidente di percorso” non evitabile.

La responsabilità del datore di lavoro

Esaminando più a fondo l’art. 2087 c.c., possiamo notare come esso «prescriva all’imprenditore di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».

In altre parole, il suddetto articolo impone all’imprenditore, in virtù della sua posizione di garante dell’incolumità fisica del lavoratore, di porre in essere tutte le misure necessarie a salvaguardare chi presta la propria attività lavorativa alle sue dipendenze.

La norma gli impone di adeguare gli strumenti di protezione ai progressi tecnologici, in modo da assicurare una costante protezione nel tempo ai lavoratori.

Il datore è altresì tenuto ad impartire direttive e istruzioni idonee a rendere edotti i dipendenti dai rischi connessi alla mancata attuazione delle disposizioni e a vigilare sull’effettiva attuazione delle misure di sicurezza adottate.

Tra il datore di lavoro e i sottoposti è stato stipulato un contratto di lavoro e, pertanto, la responsabilità del datore in caso di incidenti e/o lesioni della salute dei dipendenti è di natura contrattuale. Da ciò deriva che l’onere di provare l’esistenza del danno, come pure il nesso causale tra l’infortunio e la nocività/pericolosità dell’ambiente di lavoro incombe sul lavoratore stesso.

Sul datore di lavoro, invece, grava l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per evitare il danno.

Ciò è ribadito a chiare lettere dalla pronuncia 749/2018, nella quale la Cassazione ha ricordato:

Occorre premettere che in tema di responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ., ai fini del superamento della presunzione di cui all’art. 1218 cod. civ., grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all’attività svolta, e di aver adottato tutte le misure che, in considerazione della peculiarità dell’attività e tenuto conto dello stato della tecnica, siano necessarie per tutelare l’integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza (cfr., Cass. n. 14468 del 2017).
A sua volta, il lavoratore che agisca, nei confronti del datore di lavoro, per il risarcimento integrale del danno patito a seguito di infortunio sul lavoro ha l’onere di provare il fatto costituente l’inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento ed il danno, ma non anche la colpa della controparte, nei cui confronti opera la suddetta presunzione ex art. 1218 cod. civ. (cfr., Cass., n. 10319 del 2017).

È inoltre importante sottolineare che, come affermato da Cass. n. 12347 del 2016, l’art. 2087 c.c. non configura una forma di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, cioè egli non è automaticamente responsabile per il solo fatto che il lavoratore abbia subito un danno, non potendosi automaticamente desumere da tale sinistro l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate: la responsabilità datoriale va infatti collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle migliori conoscenze sperimentali o tecniche del momento al fine di prevenire infortuni sul lavoro e di assicurare la salubrità e, in senso lato, la sicurezza in correlazione all’ambiente in cui l’attività lavorativa viene prestata, onde in tanto può essere affermata in quanto la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto.

Vale a dire che l’art. 2087 c.c., nella misura in cui impone al datore di lavoro l’adozione delle «misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità dei prestatori di lavoro», permette di imputare al datore stesso non qualsiasi evento lesivo della salute dei propri dipendenti, ma solo quello che concretizzi le astratte qualifiche di negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

Si deve per contro escludere la responsabilità datoriale ogni qualvolta la condotta sia stata diligente ovvero non sia stata negligente (imprudente, imperita ecc.) in ordine allo specifico pericolo di cagionare proprio quell’evento concreto che in fatto si è cagionato, cioè quando la regola cautelare violata non aveva come scopo anche quello di prevenire quel particolare tipo di evento concreto che si è effettivamente verificato (o almeno un evento normativamente equivalente ad esso).

Proprio questo ultimo è il punto centrale della decisione, che mi trova in parziale disaccordo rispetto ai pronunciamenti dei giudici.

La decisione della Cassazione

Questi ultimi hanno affermato che il non proibire l’iniziativa del festeggiamento attesa la partecipazione di ragazzi maggiorenni o comunque prossimi alla maturità, e dunque in età adolescenziale avanzata, e il carattere usuale della stessa, non consentivano di ravvisare un aggravamento del rischio professionale; non vi erano elementi che consentivano di affermare che l’uso di alcolici fosse stato assentito; non vi era evidenza che la manovra inopinata dell’alunno fosse in qualche modo determinata da sue condizioni di alterazione per intossicazione alcolica.

La condotta abnorme e imprevedibile dell’alunno (avvicinatosi a breve distanza dall’insegnante recando in mano e agitando la bottiglia di spumante) non consentiva di ravvisare una serie causale prevedibile e adeguata rispetto alla permessa organizzazione del festeggiamento durante l’ordinario orario di lezione scolastiche.

La mia obiezione è la seguente: se si permette lo svolgimento di una festa all’interno della classe in orario di scuola, si accetta il rischio che, indipendentemente dallo stato di ebbrezza causato dall’abuso di alcolici (fatto di per sé idoneo, tra l’altro, ad aggravare la responsabilità del Dirigente scolastico e degli insegnanti che avrebbero dovuto impedirlo), durante lo svolgimento una bottiglia possa essere stappata e colpire il volto di un insegnante o di un allievo.

Non mi sembra questo un evento dannoso imprevedibile e inevitabile, a meno che si faccia finta di pensare che gli studenti siano dei perfetti “lord” e sappiano comportarsi come l’etichetta prescrive!

Come si può sostenere che il comportamento del datore di lavoro sia stato diligente se si è autorizzata una attività completamente estranea al normale svolgimento delle attività scolastiche?

Si potrebbe fare un paragone, mutatis mutandis, con il caso degli atteggiamenti mobbizzanti di alcuni colleghi di lavoro verso la vittima, provocanti la responsabilità del datore di lavoro per non aver impedito tali comportamenti vessatori.

Secondo Cassazione, Sez. lavoro, 25/07/2013, n. 18093, la circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo.

Nel nostro caso, il Dirigente scolastico è rimasto inerte nell’impedire lo svolgersi della festa o predisporre misure organizzative tali da ridurre il più possibile il rischio del verificarsi di eventi lesivi (vietare l’introduzione di bottiglie di vetro in classe, ribadire il divieto di consumo di bevande alcoliche ecc.).

Chi di noi non ha mai aperto una bottiglia di spumante facendo saltare il tappo? Non è prevedibile, durante una festa con minorenni, che ciò accada, accompagnato dalla volontà di fare uno scherzo (agitare la bottiglia proprio vicino all’insegnante) senza valutarne la portata offensiva?

Il processo per infortunio

Tutto ciò precisato, e ribadito che i miei dubbi non sono sufficienti a confutare le decisioni dei giudici, sembra utile evidenziare che, in un processo per infortunio sul lavoro, il dipendente dovrà:

  1. fornire tutti gli elementi in fatto e in diritto affinché possa essere accertabile l’inadempimento datoriale, con specifica allegazione delle norme antinfortunistiche che si assumono violate: la mera enunciazione generica della violazione dell’2087 c.c. è insufficiente a far accogliere la domanda di risarcimento, essendo troppo generica (bisogna citare, es. gli articoli del D.Lgs. 81/2008 che si ritengono violati);
  2. descrivere dettagliatamente i fatti per ricostruire la dinamica dell’infortunio, evidenziando le condizioni lavorative e ambientali, le misure di sicurezza concretamente adottate o meno, la formazione e informazione concretamente (non) ricevuta, le disposizioni violate, il nesso causale sia esso attivo od omissivo rispetto all’evento finale;
  3. allegare gli elementi utili a connotare la condotta datoriale in materia di sicurezza (es: estratto del documento di valutazione rischi, le eventuali ispezioni dell’ASL, dell’ARPA o dell’Ispettorato del Lavoro, l’acquisizione del registro infortuni);
  4. provare e allegare tutti gli elementi utili alla liquidazione del danno subito (eventuale consulenza tecnica da parte di un perito o di un medico di fiducia).

Incomberà, invece, sul Dirigente scolastico, per andare esente da responsabilità (o per attenuarla), provare:

  1. la concreta adozione di tutte le misure di sicurezza ambientali e individuali secondo il miglior progresso tecnologico e secondo gli standard di sicurezza propri di quel settore di attività e del momento esistenti in quel determinato contesto produttivo;
  2. di aver effettuato una corretta valutazione del rischio (cfr. DVR);
  3. di aver adeguatamente formato, informato e addestrato i lavoratori sui rischi specifici e generici derivanti dalla mansione concretamente svolta dall’infortunato;
  4. di aver dotato i lavoratori delle misure di sicurezza ambientali ed individuali, vigilando sulla loro concreta adozione;
  5. di avere predisposto idonee prassi operative aziendali e la sorveglianza sanitaria;
  6. di aver attuato ed efficacemente adottato un modello di gestione per la salute e la sicurezza;
  7. di aver effettivamente vigilato e controllato sul concreto rispetto ed adozione delle misure di sicurezza avvalendosi di personale professionalmente qualificato;
  8. l’eventuale concorso di colpa del lavoratore o l’interruzione del nesso causale per fatto abnorme dello stesso;
  9. la contestazione sul danno patrimoniale e non patrimoniale;
  10. dedurre eventuali eccezioni estintive del diritto (prescrizione), di procedibilità della domanda e ovviamente formulare l’idonea istanza di chiamata in causa della compagnia di assicurazione.

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