Sinergie di Scuola

Il caso che mi appresto a commentare ha come protagonista una lavoratrice che, dopo essersi assentata per un lungo periodo, anziché riprendere servizio ha preso dei giorni di ferie, senza essere stata autorizzata dal datore di lavoro. Quest’ultimo, contestando la decisione della dipendente, ha inviato una lettera di licenziamento che la lavoratrice ha impugnato davanti al giudice, per ottenere l’annullamento della sanzione disciplinare estrema e il reintegro sul posto di lavoro.

La Corte di appello di Napoli, però, respingendo le tesi difensive della lavoratrice, ha confermato la sentenza con cui il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere non aveva accolto la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa, intimato alla lavoratrice a causa delle assenze ingiustificate dal lavoro per più giorni consecutivi.

La Corte di appello ha osservato, a sostegno della propria decisione, che la dipendente si era collocata autonomamente in ferie alla scadenza del periodo di comporto, senza formulare alcuna richiesta di autorizzazione al loro godimento; né poteva ritenersi, hanno aggiunto i giudici, che la società datrice di lavoro si fosse resa inadempiente all’obbligo di sorveglianza sanitaria, nell’ipotesi prevista dal D.Lgs. 81/2008, art. 41, comma 2, lettera e-ter, disciplinante l’obbligo di «visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l’idoneità alla mansione», dovendo la visita medica effettuarsi, in tale ipotesi, prima della concreta assegnazione del lavoratore alle mansioni, che è momento non coincidente con la ripresa del lavoro e cioè con la formale presentazione nel luogo di lavoro.

In sostanza, ha precisato la Corte, il lavoratore, dopo un periodo di malattia protratto per oltre sessanta giorni e in assenza di visita medica, una volta presentatisi sul posto di lavoro può legittimamente rifiutarsi, a norma dell’art. 1460 c.c., di eseguire le mansioni incompatibili con il suo stato di salute, posto che l’omissione della visita medica costituisce grave e colpevole inadempimento del datore di lavoro, ma non può rifiutarsi di ritornare al lavoro e continuare ad assentarsi, come invece era accaduto nella specie.

Cos’è il periodo di comporto

Prima di proseguire occorre spendere alcune parole per precisare taluni concetti espressi dal giudice di secondo grado.

Innanzi tutto è utile chiarire che il periodo di comporto per malattia è quell’arco temporale durante il quale il lavoratore, pur assente dal lavoro, ha il diritto alla conservazione del proprio posto di lavoro. Questo periodo di tempo è generalmente stabilito dalla legge e regolato dai contratti collettivi o, in mancanza di riferimenti, dagli usi e dalla prassi.

Durante la decorrenza del periodo di comporto il datore di lavoro può licenziare il dipendente solo per giusta causa (cioè per un motivo molto grave, come un furto o un atto di insubordinazione imperdonabile) o per giustificato motivo dovuto a sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa (si pensi all’impossibilità di continuare ad insegnare per la docente di religione cattolica, per revoca del nulla osta da parte della competente autorità ecclesiastica, decisa da Cass. 24/02/2003 n. 2803, che ha stabilito che il docente di religione, a cui la diocesi abbia revocato l’idoneità all’insegnamento, non può chiedere la procedura di mobilità se non possiede un diverso titolo abilitante: in tal caso è legittima la risoluzione del rapporto di lavoro) o cessazione totale dell’attività d’impresa (quando l’impresa fallisce o, semplicemente, termina l’attività).

La Cassazione ha affermato in una recente sentenza che il periodo di comporto, determinato in mesi, deve essere computato – salvo diversa volontà delle parti sociali – secondo il calendario comune in base all’effettiva consistenza degli stessi, e non considerando tutti i mesi di 30 giorni (così Cass. 9751/2019).

La decisione della Cassazione

Tornando alla sentenza della Corte d’appello di Napoli, avverso questa ultima ha proposto ricorso per Cassazione la lavoratrice, cui ha resistito la società con controricorso.

La dipendente ha fondato la sua linea difensiva essenzialmente sulla circostanza che non avrebbe potuto né dovuto riprendere il lavoro senza previa effettuazione della visita medica di controllo, attestante la sua idoneità a svolgere le mansioni lavorative e che, pertanto, fosse stato legittimo autoassegnarsi un periodo di ferie una volta esaurito il periodo di comporto.

La Cassazione, nell’esaminare il ricorso della lavoratrice, è partita proprio dall’esame del D.Lgs. 81/2008, che all’art. 41 prevede, tra gli strumenti della “sorveglianza sanitaria” (al comma 2), anche l’effettuazione di una «visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare la idoneità alla mansione» (lettera e-ter).

Per gli Ermellini, la norma va letta nel senso che la ripresa del lavoro, rispetto alla quale la visita medica deve essere precedente, è costituita dalla concreta assegnazione del lavoratore, quando egli faccia ritorno in azienda dopo un’assenza per motivi di salute prolungatasi per oltre sessanta giorni, alle medesime mansioni già svolte in precedenza, essendo queste soltanto le mansioni per le quali sia necessario compiere una verifica di idoneità, e cioè accertare se il lavoratore possa sostenerle senza pregiudizio o rischio per la sua integrità psicofisica.

Ne deriva che, ove nuovamente destinato alle stesse mansioni assegnategli prima dell’inizio del periodo di assenza, egli possa astenersi, come statuito dall’art. 1460 c.c. dall’eseguire la prestazione dovuta, posto che l’effettuazione della visita medica prevista dalla norma si colloca all’interno del fondamentale obbligo imprenditoriale di predisporre e attuare le misure necessarie a tutelare l’incolumità e la salute del prestatore di lavoro, secondo le previsioni della normativa specifica di prevenzione e dell’art. 2087 c.c.; sicché la sua omissione, integrando un inadempimento della parte datoriale di rilevante gravità, risulta tale da determinare una rottura dell’equilibrio contrattuale e da conferire, pertanto, al prestatore di lavoro una legittima facoltà di reazione.

La Cassazione, in altre parole, ha evidenziato come il comportamento del dipendente di rifiutarsi di riprendere il lavoro, possa giustificarsi solo nell’ipotesi in cui questo ultimo, presentatosi innanzi al datore di lavoro dopo l’assenza prolungata, si veda costretto a effettuare le stesse mansioni, senza che il medico competente lo abbia preventivamente ritenuto idoneo a svolgerle nuovamente.

Proprio l’art. 2087 c.c. richiamato dalla Corte di legittimità impedisce tale comportamento arbitrario del datore di lavoro, ponendo anzi a suo carico il dovere di «adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».

In pratica, il datore di lavoro deve adottare tutte le misure idonee a prevenire sia i rischi insiti all’ambiente di lavoro, sia quelli derivanti da fattori esterni e inerenti al luogo in cui tale ambiente si trova, visto che la sicurezza del lavoratore è un bene di rilevanza costituzionale che impone al datore di anteporre al proprio profitto la sicurezza di chi esegue la prestazione.

Ciò precisato però, la Cassazione, nell’esaminare il caso specifico, non ha riconosciuto legittimo il comportamento della dipendente, affermando che non è consentito al prestatore di astenersi anche dalla presentazione sul posto di lavoro, una volta venuto meno il titolo giustificativo della sua assenza (come nella specie, avendo la ricorrente superato il periodo di comporto). I giudici, infatti, richiamano la differenza concettuale tra l’atto/il momento della presentazione fisica sul luogo di lavoro e la ripresa del lavoro stesso, cioè l’atto/momento dello svolgimento in concreto delle mansioni.

Il primo è consequenzialmente precedente il secondo: la presentazione di persona è momento distinto dall’assegnazione alle mansioni, in quanto, come ribadisce la Corte, «diretto a ridare concreta operatività al rapporto e ben potendo comunque il datore di lavoro, nell’esercizio dei suoi poteri, disporre, quanto meno in via provvisoria e in attesa dell’espletamento della visita medica e della connessa verifica di idoneità, una diversa collocazione del proprio dipendente all’interno della organizzazione di impresa».

In altre parole, in attesa del responso del medico aziendale, il lavoratore verrà collocato temporaneamente a svolgere mansioni diverse da quelle svolte fino ad un momento prima della sua assenza.

D’altra parte, a sostegno delle motivazioni con cui i giudici hanno respinto le tesi difensive della ricorrente, è stato richiamato il consolidato il principio (già espresso da Cass. n. 5521/2003 e confermato, fra altre, da Cass. n. 21385/2004), secondo il quale «il lavoratore assente per malattia non ha incondizionata facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, quale titolo della sua assenza, allo scopo di interrompere il decorso del periodo di comporto, ma il datore di lavoro, di fronte ad una richiesta del lavoratore di conversione dell’assenza per malattie in ferie, e nell’esercitare il potere, conferitogli dalla legge (art. 2109 c.c., comma 2), di stabilire la collocazione temporale delle ferie nell’ambito annuale armonizzando le esigenze dell’impresa con gli interessi del lavoratore, è tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguate alla posizione del lavoratore in quanto esposto, appunto, alla perdita del posto di lavoro con la scadenza del comporto; tuttavia, un tale obbligo del datore di lavoro non è ragionevolmente configurabile allorquando il lavoratore abbia la possibilità di fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto ed in particolare quando le parti sociali abbiano convenuto e previsto, a tal fine, il collocamento in aspettativa, pur non retribuita (nella specie, la S.C., enunciando tale principio e dando altresì conto dell’evoluzione giurisprudenziale in materia, ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto la correttezza del comportamento datoriale sul presupposto che il lavoratore, pur a fronte di avvisi inviatigli dal datore di lavoro, non aveva inteso richiedere la conversione in ferie del proprio periodo di malattia e neppure avvalersi del periodo di aspettativa previsto contrattualmente)»: istituto la cui presenza, anche nella contrattazione collettiva applicata al rapporto in esame, risulta espressamente accertata dalla Corte di merito napoletana.

In sostanza, la Cassazione ha rimproverato alla ricorrente:

  1. di aver omesso di presentarsi di persona sul posto di lavoro una volta conclusosi il periodo di comporto;
  2. di non aver contrattato con il datore di lavoro l’assegnazione delle ferie, ma di aver mutato unilateralmente la giustificazione della sua assenza, da “malattia” a “godimento delle ferie”, senza che sussistesse un obbligo del datore di lavoro di subire tale differente giustificazione;
  3. di non essersi avvalsa, al termine del predetto periodo di comporto, dei giorni di aspettativa non retribuita, come peraltro previsti dalla contrattazione collettiva applicabile nell’impresa in cui lavorava.

Superamento del periodo di comporto

In merito, in ambito scolastico, l’art. 17 del CCNL Scuola dispone che il dipendente assente per malattia ha diritto alla conservazione del posto per un periodo di diciotto mesi.

Superato tal periodo, al lavoratore che ne faccia richiesta è concesso di assentarsi per un ulteriore periodo di 18 mesi in casi particolarmente gravi, senza diritto ad alcun trattamento retributivo.

È da precisare, però, che trascorsi i primi 18 mesi, il Dirigente scolastico – ai sensi dell’art. 14 del D.P.R. 275/1999 – richiederà alla Commissione medica di verifica (CMV) operante presso le sedi decentrate del MEF, la visita di inidoneità/inabilità, per stabilire l’idoneità al servizio del dipendente.

La visita medica collegiale mira a stabilire la sussistenza di eventuali cause di assoluta e permanente inidoneità fisica a svolgere qualsiasi proficuo lavoro o dei requisiti fisici temporanei e/o permanenti di idoneità allo svolgimento della funzione.

Se l’inidoneità permanente assoluta al servizio è accertata, l’amministrazione lo comunicherà al lavoratore (entro 30 giorni dal ricevimento del verbale medico), risolverà il rapporto di lavoro e corrisponderà l’indennità sostitutiva del preavviso, se dovuta.

Quindi, ferma restando la possibilità di licenziamento in caso di superamento del periodo di comporto previsto dal CCNL vigente (e sempre che la dipendente non richieda un periodo di aspettativa previsto dall’art. 18 CCNL Scuola, per motivi di famiglia, lavoro, personali e di studio), la scuola procederà alla risoluzione del rapporto di lavoro se, a seguito all’accertamento medico, emergerà un’inidoneità permanente psicofisica assoluta.

Se, invece, si accerta un’inidoneità permanentemente relativa, scatta la procedura di cui all’art. 7 del D.P.R. 171/2011: l’amministrazione ha la facoltà di adibire il lavoratore a mansioni inferiori o equivalenti di altro profilo o area.

Un’altra sentenza

Per completezza argomentativa, vorrei citare un’altra pronuncia della Cassazione che, contrariamente al caso sin qui esaminato, ha ritenuto illegittimo il licenziamento del lavoratore per superamento del periodo di comporto, in un caso in cui però tale travalicamento era stato determinato dal comportamento inammissibile del datore di lavoro, che aveva sottoposto il proprio dipendente a mobbing (Cassazione 22/07/2019, n. 19661).

La causa riguardava una lavoratrice oggetto di un illegittimo provvedimento di trasferimento ad altra sede lavorativa e del licenziamento per superamento del periodo di comporto.

La Corte di appello di Catania aveva confermato l’illegittimità del licenziamento, ma aveva concesso in alternativa alla riassunzione, il pagamento del danno (indennità pari a quattro mensilità dell’ultima retribuzione di fatto, oltre agli interessi legali e alla rivalutazione monetaria dalla data della maturazione del diritto).

Per la Suprema Corte, riguardo l’illegittimità del licenziamento, era stato correttamente valutato dal giudice di secondo grado che la patologia fosse insorta in conseguenza al trasferimento della sede di lavoro, per cui i periodi di malattia eccedenti il periodo di comporto non avrebbero dovuto essere conteggiati. Non sussisteva dunque il superamento del comporto ma anzi una situazione di mobbing verso la lavoratrice. Gli Ermellini hanno anche specificato che tale licenziamento non rientrava tra i licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo. Inoltre, hanno sottolineato che il ruolo ricoperto dalla salute all’interno del nostro ordinamento è da considerarsi di assoluto rilievo e deve garantire al lavoratore la possibilità di curarsi senza il timore di perdere il posto di lavoro.

Circa la decisione del giudice d’appello di consentire al datore di lavoro il pagamento di una indennità al posto della riassunzione del lavoratore, occorre rilevare che la Cassazione ha riformato questa parte della sentenza, statuendo che la nullità del licenziamento comporta l’obbligo del datore di lavoro di reintegrare il lavoratore all’interno dell’azienda, non semplicemente il versamento di una somma a titolo di indennità.

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