Sinergie di Scuola

La Cassazione, Sez. III, attraverso l’ordinanza del 12/04/2018, n. 9059, si è occupata del caso di una maestra elementare che era stata pesantemente criticata soprattutto dal padre di un suo alunno e che si era vista respingere la domanda di risarcimento dei danni conseguenti a tali aspre critiche, sia in primo sia in secondo grado.

Più precisamente, la docente era stata ingiustificatamente e violentemente contestata da alcuni genitori, e in particolare dal padre di uno di essi. Era stata descritta da quest’ultimo come «un mostro» al cospetto degli altri genitori nel corso di una riunione indetta a scuola; il genitore aveva poi inviato numerose lettere alla direttrice didattica dell’Istituto, attribuendo alla maestra comportamenti particolarmente gravi nei confronti dei bambini, tanto che, in conseguenza delle sue reiterate affermazioni diffamatorie, la docente era stata addirittura sottoposta a valutazione psichiatrica medico-legale.

Ma le conseguenze non finirono qui. Sempre a seguito, tra l’altro, della condotta del predetto genitore, era stata sottoposta a procedimento penale per i reati di cui agli artt. 572 e 582 c.p. dal Procuratore della Repubblica di Pisa – reati da cui è stata poi assolta, ma che le avevano fatto subire, nel corso di tale procedimento, la sottoposizione alla misura interdittiva della sospensione dal pubblico servizio.

Come se tutto ciò non bastasse, a causa di tali vicende, cui era stato dato ampio risalto anche da parte della stampa locale, era stata trasferita d’ufficio in un’altra sede.

I giudici dei primi due gradi avevano però respinto le pretese risarcitorie della maestra, sull’assunto che non era emerso un contesto offensivo della reputazione dell’insegnante, quanto piuttosto «l’esistenza di due fronti contrapposti tra i genitori», a favore o contrari ai metodi educativi dell’insegnante, e che quanto alle critiche inviate dal genitore resistente, pur esprimendo dissenso e disappunto per i metodi adottati dall’insegnante, esse non trascendevano comunque nella diffamazione.

La sentenza della Cassazione

La Cassazione ha invece confutato le conclusione dei giudici del merito, rilevando che la condotta denigratoria ascritta al genitore “fumantino” ebbe diacronicamente a dipanarsi attraverso una serie di atti e comportamenti univocamente e pervicacemente intesi a ledere l’onore, il prestigio e la stessa dignità dell’insegnante, e che a tale evidente conclusione avrebbe dovuto condurre una più attenta e approfondita valutazione dei fatti di causa da parte dei giudici di primo e secondo grado.

Infatti, le conseguenze gravissime della condotta tenuta (anche) dal padre dell’alunno: l’essere stata l’insegnante sottoposta a visita psichiatrica; l’essere stata imputata di gravi reati; l’essere stata sospesa dal servizio; l’essere stata trasferita ad altra sede (e l’essersi poi le accuse dissolte in una pronuncia del giudice penale di insussistenza dei fatti contestati), non sono scriminate né sminuite dal fatto che le critiche fossero condivise da una buona parte dei genitori.

La Corte di Cassazione ha concluso affermando che il giudice civile, nella valutazione e liquidazione del danno, non può e non deve ignorare il preoccupante clima di intolleranza e di violenza, non soltanto verbale, nel quale vivono oggi coloro cui è demandato il processo educativo e formativo delle giovani e giovanissime generazioni.

Il prestigio connesso all’esercizio della professione di docente e l’onore che ad essa viene riconosciuto dalla comunità in cui l’insegnante è inserito sono specificamente tutelati dalla legge, che, all’art. 341-bis del codice penale prevede proprio il reato di oltraggio a pubblico ufficiale:

Chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni è punito con la reclusione fino a tre anni.

L’insegnante è un pubblico ufficiale

Non c’è da stupirsi che questa norma si applichi nei confronti delle offese rivolte ad una insegnante nell’esercizio delle sue funzioni, che, come ricorda la sentenza della Cassazione, Sez. III, n. 12419 del 06/02/2008, è pubblico ufficiale concorrendo «a formare la volontà di una pubblica amministrazione, insieme a coloro che sono muniti di poteri: decisionali; di certificazione; di attestazione di coazione» (come i notai, i magistrati, le forze dell’ordine ecc.; v. Cass. n. 148796/1981).

Per giunta l’esercizio delle funzioni non è circoscritto alla tenuta delle lezioni, ma si estende alle connesse attività preparatorie, contestuali e successive, ivi compresi gli incontri con i genitori degli allievi (v. Cass., Sez. VI, n. 4033 del 15/12/1993; Sez. VI, n. 6587 del 5/02/1991).

Si avrà oltraggio a pubblico ufficiale, pertanto, ogni qualvolta:

  1. l’offesa all’onore e al prestigio del pubblico ufficiale è avvenuta alla presenza di più persone;
  2. in luogo pubblico o aperto al pubblico;
  3. in un momento nel quale il pubblico ufficiale compie un atto d’ufficio e a causa o nell’esercizio delle sue funzioni.

Tutte queste condizioni sembrano sussistere nel caso deciso dall’ordinanza della Cassazione n. 9059/2018 che ci occupa.

La scuola è sicuramente un luogo aperto al pubblico, a cui possono accedere un numero indeterminato di persone, pur con l’obbligo di farsi riconoscere (v. Cass., Sez. VI, 3/09/2012, n. 33593); le ingiurie sono state pronunciate nei locali scolastici, in modo tale da essere percepite da più persone, nel momento in cui la maestra svolgeva le sue mansioni e proprio a causa della sua attività di insegnamento.

L’onore di un insegnante, peraltro, può essere leso anche senza che il docente sia materialmente presente nel momento in cui vengono esternate le espressioni denigratorie (integrando, così, il reato di diffamazione), come nel caso di una lettera inviata alla Dirigente scolastica contenente pesanti e oltraggiose critiche all’operato di un professore o nell’ipotesi di commenti “maligni e ineducati” esternati alle spalle del docente stesso, cioè non espresse “faccia a faccia”, o in sua assenza.

La diffamazione sui social network

Ultimamente, inoltre, aumentano i casi di insulti veicolati contro i professori attraverso i social network, soprattutto Facebook, Instagram o via Whatsapp.

È recentemente intervenuta la Cassazione, attraverso la sentenza 20/01/2017, n. 2723, precisando che, in base a dati di comune esperienza, la divulgazione di un messaggio tramite Facebook ha, per la natura di questo mezzo, potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, che, del resto, si avvalgono del social network proprio allo scopo di instaurare e coltivare relazioni interpersonali allargate ad un gruppo di frequentatori non determinato. Pertanto, se il contenuto della comunicazione in siffatto modo trasmessa è di carattere denigratorio, la stessa è idonea ad integrare il delitto di diffamazione.

L’accessibilità del profilo Facebook, perlomeno da parte delle persone autorizzate ad entrare in relazione con il suo titolare, di regola in numero consistente per le caratteristiche intrinseche dello strumento di comunicazione, è l’elemento centrale del delitto di diffamazione aggravata, per commettere il quale è sufficiente che l’offensore usi consapevolmente espressioni che, nel contesto sociale di riferimento, sono ritenute offensive, per il significato che oggettivamente assumono.

L’insulto dell’insegnante verso gli alunni

È curioso, peraltro, rilevare che mentre l’insulto verso l’insegnante, durante lo svolgimento delle sue funzioni, costituisce oltraggio a pubblico ufficiale, le espressioni offensive che questo ultimo rivolge verso i suoi allievi non sono più punibili penalmente, essendo stato abrogato il reato di ingiuria, ma solo civilmente, chiedendo il risarcimento dei danni procurati al proprio onore, inteso come l’insieme delle proprie qualità morali.

La Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la sentenza 7/12/2016 – 16/03/2017, n. 12768 ha dichiarato non penalmente punibile, perché il fatto non costituisce più reato, la maestra di una scuola elementare che aveva offeso l’onore e il decoro di un suo alunno, definendolo, unitamente agli altri compagni di classe, “deficiente”, “stupido” e “zozzone”.

Gli Ermellini, infatti, hanno ritenuto dirimente la circostanza che l’art. 1, comma 1, lett. a del D.Lgs. 15/01/2016, n. 7, abbia disposto la depenalizzazione del reato di cui all’art. 594 del codice penale, per il quale la maestra era stata condannata dal Tribunale.

Ovviamente se gli insulti rivolti agli studenti trasmodano in vere e proprie offese razziste, continuate nel tempo, si può ricadere nel reato di maltrattamenti aggravati, se viene lesa l’integrità psichica e morale del minore, come precisato dall’art. 3, comma 1, del D.L. n. 122 del 26/04/1993, convertito in Legge 205/1993 (c.d. Legge Mancino) dalle finalità di «discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso [...]».

Si porta ad esempio il caso di un allievo che, durante le lezioni alla scuola secondaria di primo grado, era divenuto il bersaglio degli attacchi dell’insegnante di educazione all’immagine. Questa, che soffriva di problemi psichici di cui l’amministrazione scolastica non si era tempestivamente preoccupata, aveva già, in passato, rivolto pesanti apprezzamenti razzisti contro alcuni allievi, ma l’accanimento nei confronti dell’alunno coinvolto in questo caso era stato particolarmente forte, forse anche per la vivacità dello stesso.

In più occasioni la docente si era rivolta all’alunno apostrofandolo «stupido negro», oppure insultandolo con frasi come «voi negri...», «bifolco» o, ancora, «voi africani, perché siete venuti qui? Ci rovinate, voi immigrati ci rubate il lavoro».

Tali offese erano talmente frequenti e umilianti che avevano scoraggiato il minore a frequentare la scuola nei giorni in cui era prevista l’ora di educazione all’immagine, tanto che erano intervenuti i genitori, denunciando il fatto prima alla Dirigente scolastica e poi all’autorità giudiziaria.

Il Tribunale, in accoglimento delle accuse presentante dalla famiglia del bambino maltrattato, non ha potuto che dichiarare, a chiare lettere, che «non occorre spendere parole per dimostrare che gli insulti e le offese razziste sono certamente fuori di qualsiasi funzione educativa ed anzi la contraddicono gravemente, tanto più valutata l’età preadolescente della parte offesa e la sua delicatissima condizione di adottato non da neonato. E certo rimangono fuori della funzione educativa di una professoressa anche gli altri insulti più generici, quali stupido e bifolco, gli uni e gli altri emersi come proferiti reiteratamente dalla insegnante verso l’alunno». Tali condotte di tipo persecutorio/ritorsivo rendevano l’alunno un capro espiatorio per qualsiasi problema emergesse in classe, senza una previa verifica delle effettive responsabilità.

Questo caso, che si è concluso con una sentenza di condanna a un anno e quattro mesi di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni subiti dal giovane alunno e dalla madre, è importante, come ha sottolineato l’ASGI, Associazione sugli studi giuridici sull’immigrazione, per mezzo dell’avv. Cristina Moschini del Foro di Firenze, che ha assistito il minore offeso e la madre dello stesso, costituiti parte civile, per almeno due ragioni:

- perché riconosce le dolorose conseguenze psicologiche che il destinatario di atti di razzismo subisce, soprattutto se queste avvengono in giovane età;
- perché illustra l’importante ruolo svolto dall’attenzione e dall’azione di chi sta intorno alle vittime di razzismo. I compagni di classe dell’alunno del caso in questione e molti genitori non sono rimasti indifferenti a quanto stava accadendo in classe e alcuni di loro si sono rivolti ai genitori dell’alunno offeso per dimostrare preoccupazione per i comportamenti dell’insegnante.

Il docente non può essere denigrato dal Dirigente

In ultimo giova ricordare che l’insegnante, pur essendo soggetto al potere disciplinare del Dirigente scolastico, non può essere fatto oggetto di critiche da parte di questo ultimo, quando esse trasmodano nell’insulto o, come nel caso deciso da Cassazione 22/01/2009 n. 2927, nella pubblica denigrazione di fronte alla classe.

Chi scrive ritiene che il diritto di critica non possa non incontrare i limiti del rispetto della dignità umana, soprattutto se essa proviene dal datore di lavoro (o da chi ne fa le veci), che dovrebbe dare il buon esempio, e per di più di fronte a minorenni che hanno bisogno proprio di esempi virtuosi di comportamento, per acquisire e consolidare lo sviluppo delle loro competenze di cittadinanza.

Il caso discusso dalla risalente sentenza della Suprema Corte traeva origine dal ricorso di un Dirigente scolastico contro la sentenza di un tribunale che lo aveva condannato «al risarcimento del danno in favore della parte civile per il reato di cui all’art. 594 c.p., commi 1 e 4, per avere offeso l’onore e il decoro di [...], alla di lui presenza, rivolgendogli le seguenti frasi: “lei è un incapace, lei è un incompetente”, con l’aggravante di aver commesso il fatto in presenza di più persone».

Tenendo conto che, allora, esisteva ancora il reato di ingiuria, la Suprema Corte aveva rigettato il ricorso.

Il comportamento del Dirigente è tanto più da condannare considerando che, in tempi più recenti, è intervenuto il D.P.R. 62/2013 (“Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici”), il quale, all’art. 13, ha chiaramente sancito:

4. Il dirigente assume atteggiamenti leali e trasparenti e adotta un comportamento esemplare e imparziale nei rapporti con i colleghi, i collaboratori e i destinatari dell’azione amministrativa. Il dirigente cura, altresì, che le risorse assegnate al suo ufficio siano utilizzate per finalità esclusivamente istituzionali e, in nessun caso, per esigenze personali.
5. Il dirigente cura, compatibilmente con le risorse disponibili, il benessere organizzativo nella struttura a cui è preposto, favorendo l’instaurarsi di rapporti cordiali e rispettosi tra i collaboratori, assume iniziative finalizzate alla circolazione delle informazioni, alla formazione e all’aggiornamento del personale, all’inclusione e alla valorizzazione delle differenze di genere, di età e di condizioni personali.

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