Sinergie di Scuola

Nel glossario dei termini più utilizzati in questo scorcio iniziale del nuovo anno scolastico va sicuramente inserita la parola “diffida”. In senso generale, essa può assumere diversi significati, richiamando l’obbligo di onorare un impegno assunto, oppure l’avvertimento di non commettere una determinata azione o di non adottare un comportamento scorretto (il mobbing, a titolo di esempio).

Anche se un’indagine in ambito giurisprudenziale può risultare senz’altro importante per coloro che debbano addentrarsi in questo complicato ambito, tale analisi non è la sola azione propedeutica ad affrontare adeguatamente alcune situazioni che possono verificarsi concretamente nelle nostre scuole.

Preliminarmente, infatti, è bene riflettere su alcune connotazioni proprie dell’atto, non sempre del tutto chiare sia per l’emittente che per il ricevente.

Si tratta, infatti, di una comunicazione che prende avvio da un soggetto che si ritiene leso nei propri diritti da un comportamento già agito (o futuro) di un’altra persona.

È evidente che non si tratta di una comunicazione sui generis e neppure di una semplice azione di sollecito: la parola “diffida” esprime una dichiarazione di sfiducia e, nel contempo, un ammonimento (ti diffido da...).

Nella maggior parte dei casi, il suo potere deterrente si esprime nei confronti di un fatto già accaduto; tuttavia, essa può essere indirizzata anche a scopo preventivo: quando, cioè, si abbia la ferma convinzione dell’imminente verificarsi del fatto medesimo.

Questa tipologia di comunicazione provoca spesso, a livello psicologico, un circolo vizioso che, oltre ad ostacolare il rapporto interpersonale, compromette il corretto passaggio d’informazioni.

L’estensore della diffida parte, in effetti, dalla convinzione dell’altrui volontà di essere inadempiente e dall’intenzione di raccogliere elementi per dimostrarlo in un possibile, futuro contenzioso.

Chi la riceve, invece, tende il più delle volte a considerare l’atto prioritariamente come manifestazione di disistima e di messa in discussione della propria identità e del proprio ruolo.

È inoltre necessario evidenziare l’aumento di stress da parte del destinatario nel caso in cui il documento provenga da uno studio legale e sembri quindi delineare in modo più esplicito le eventuali conseguenze giudiziarie in caso di mancato adempimento.

In realtà, anche se nel linguaggio comune si tende a parlare di “diffida legale” per differenziarla da quella “comune”, l’atto produce le stesse conseguenze, sia nel caso che l’estensore sia il diretto interessato, sia che venga redatto – previo mandato scritto ai sensi dell’art. 1392 c.c. – da un avvocato in rappresentanza della parte che subisce (o potrà subire) un danno.

Qualora il soggetto che si ritiene offeso intenda agire di persona, è probabile il ricorso (o almeno la consultazione) di modelli per il “fai da te” veicolati dai vari siti specializzati.

Può tuttavia succedere che, seguendo tali indicazioni colui che diffida ritenga di agire in modo efficace e corretto pur non conoscendo i significati di alcuni termini che vengono inseriti nel documento.

Diffida ad adempiere, intimazione e messa in mora

A titolo esemplificativo si cita l’utilizzo di una formula che accomuna i termini “diffida ad adempiere”, “intimazione” e “messa in mora”, anche se non tutti sono a conoscenza del fatto che i termini stessi riguardano diversi aspetti e contenuti.

La diffida ad adempiere reca spesso con sé un avvertimento legato ad una manifestazione di volontà di sciogliere un contratto in caso di inadempimento. Essa contiene, di norma, un’intimazione, cioè un comando perentorio ovvero ordine di ottemperanza ad un obbligo. L’intimazione, peraltro, non è utilizzata unicamente nell’ambito della diffida ad adempiere, ma può essere impiegata in tutti i casi in cui va impartito un ordine. In tal senso, il Dirigente scolastico può ricevere ed emettere intimazioni.

Per fare due esempi concreti che possono vedere il Dirigente scolastico nella veste di emittente dell’atto in questione si cita innanzitutto l’intimazione a teste – a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento – nei confronti di uno o più soggetti facenti parte del personale per la comparsa in udienze relative a cause di lavoro.

Il Dirigente scolastico, infatti, è tenuto ad assumere il ruolo di procuratore nelle cause promosse da terzi contro il Ministero come delegato da quest’ultimo, in relazione a quanto previsto dall’art. 417-bis c.p.c. che recita testualmente: «Nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni [...], limitatamente al giudizio di primo grado le amministrazioni stesse possono stare in giudizio avvalendosi direttamente di propri dipendenti».

Un’altra circostanza che richiede l’intervento con intimazione da parte del Dirigente scolastico riguarda l’interruzione della decorrenza del termine di prescrizione in caso di sinistro riguardante un alunno. In questo caso, per evitare che dal fatto in questione possa derivare, seppur indirettamente, un danno all’erario dello Stato, il Dirigente, oltre all’immediata denuncia, dovrà provvedere alla costituzione in mora dei presunti responsabili del danno, da effettuarsi mediante intimazione o richiesta scritta, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 1219 e 2943 del codice civile.

Da quest’ultimo esempio si può dedurre che la messa in mora parte dal presupposto dell’esistenza di un debitore.

Ricollegandoci con la diffida ad adempiere, si può affermare che la messa in mora può riferirsi all’obbligo di risarcire i danni derivanti dal ritardo nell’adempimento e a corrispondere altresì gli eventuali interessi legali.

Una lettera di questo tenore non introduce la risoluzione di un contratto, ma comunica espressamente alla controparte la volontà di adire le vie legali in caso di mancato rispetto, anche dopo il sollecito, degli impegni a suo tempo assunti.

La diffida ad adempiere nella scuola

Siamo gradualmente transitati nell’ambito giurisprudenziale, nel quale possono essere esaminati alcuni specifici casi rintracciabili all’interno dell’ordinamento giuridico italiano.

Va citata, in primis, la sopraddetta “diffida ad adempiere” descritta all’art. 1454 Codice Civile che, come già sottolineato, riguarda la risoluzione di un contratto per inadempimento. Nella fattispecie, il legislatore ha inteso offrire uno strumento per ottenere quanto previsto dal contratto stesso o, in alternativa, a garantirne la risoluzione in caso di mancato rispetto dell’impegno assunto dal contraente.

In questo contesto può essere inquadrata la diffida ad adempiere conseguente a un decreto di assenza ingiustificata ai sensi e per gli effetti dell’art. 9-ter, commi 1 e 2 del testo aggiornato al 7 agosto 2021 del Decreto-Legge 22/04/2021, n. 52 (convertito in Legge 17/06/2021, n. 87): si tratta dell’atto emanato dal Dirigente scolastico che invita il docente a riprendere entro 24 ore il proprio servizio adempiendo a quanto previsto dalla norma, anche in considerazione delle eventuali conseguenze sul trattamento retributivo e sul piano disciplinare.

Rimanendo sempre nel quadro normativo, l’azione del “diffidare” è ancora presente nell’art. 508 del D.Lgs. 297/1994 che, parlando di incompatibilità tra l’impiego del docente e altre attività lavorative inerenti il comma 10 del medesimo articolo, ipotizza per i trasgressori una diffida da parte del «direttore generale o capo del servizio centrale competente ovvero dal provveditore agli studi a cessare dalla situazione di incompatibilità».

Va inoltre citata la Legge 4/11/2010, n. 183, che all’art. 33 tratta la questione relativa all’accesso ispettivo e al potere di diffida. Essa potrebbe riguardare le attività di verifica del rispetto delle norme di igiene e sicurezza riguardo alle quali il Dirigente scolastico, nel suo ruolo di datore di lavoro, potrebbe essere diffidato alla regolarizzazione delle inosservanze materialmente sanabili entro il termine di 30 giorni dalla data di notificazione del verbale.

Se vogliamo trovare un ulteriore collegamento con la Pubblica Amministrazione (di cui la scuola fa parte) la diffida ad adempiere trova una concreta applicazione anche nel sollecito scritto – indirizzato al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio – al compimento di un atto che rivesta carattere d’urgenza, ovvero all’esposizione delle ragioni che lo impediscono.

In questa fattispecie, il Dirigente scolastico può assumere i panni del destinatario nella sua qualità di pubblico ufficiale e di responsabile dell’operato dell’Istituzione che rappresenta.

A titolo esemplificativo va indicata una delle situazioni che possono essere oggetto di diffida rivolta al Dirigente scolastico da parte delle famiglie degli alunni: la mancata attivazione dell’attività didattica e formativa alternativa all’insegnamento della religione cattolica.

È il caso di sottolineare che la condotta omissiva rispetto alla richiesta (in casi particolari e specifici passibile di risvolti penali) non consiste necessariamente nella mancata esecuzione dell’azione richiesta, ma anche alla sola spiegazione scritta in tempi congrui delle motivazioni dell’impossibilità a procedere.

La diffida, infine, gioca un ruolo fondamentale anche nell’ambito della class action, introdotta dal D.Lgs. 20/12/2009, n. 198, che ha dato attuazione alla Legge Brunetta consentendo ai titolari di interessi giuridicamente rilevanti e omogenei, ad una pluralità di utenti e consumatori di agire in giudizio nei confronti delle pubbliche amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici, i quali nello svolgimento delle proprie attività abbiano leso i loro diritti.

In questo caso, il provvedimento di diffida – la cui notifica costituisce condizione di ammissibilità del ricorso – è finalizzato a responsabilizzare progressivamente il dirigente competente o l’organo preposto ad adottare le misure idonee volte a risolvere le problematiche che si sono presentate.

Uno dei primi esempi (se non addirittura il primo) di class action che ha riguardato la scuola risale al 15 gennaio 2010. Promotore dell’iniziativa fu il “Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori” che avviò un’azione collettiva attraverso la notifica (nota bene: addirittura da parte dell’ufficiale giudiziario) di una diffida al MIUR. Il motivo dell’azione riguardò la scelta dell’amministrazione scolastica centrale di eludere il limite massimo di 25 alunni per classe.

Al tempo, oltre a richiedere un risarcimento di 250 euro per ciascuno degli studenti costretti a far lezione in condizioni non ottimali, l’organo di tutela dei cittadini chiese addirittura (si cita testualmente) «la restituzione alle famiglie di una parte della tassa scolastica pagata in proporzione al minore spazio a disposizione di ciascun alunno (la legge prevede 1,80 m2 per alunno nelle scuole materne, elementari e medie e 1,96 m2 per alunno nelle scuole superiori), oltre il danno connesso al rischio per la sicurezza e la diminuzione del servizio istruzione reso ridicolo da classi pollaio di 35-40 alunni a causa dei tagli agli organici del personale docente».

Per inciso, il MIUR contestò la diffida definendo l’azione prodotta come priva di fondamento giuridico.

Questa la motivazione testualmente riportata: «l’atto impugnato (D.P.R. 81/2009) è un regolamento emanato in applicazione della legge (art. 64 del D.L. 112/2008). In virtù di essa lo stesso regolamento può disporre modifiche alla normativa precedente. Pertanto oggi non esistono più le disposizioni sui 25 alunni per classe ma sono in vigore le nuove regole previste proprio dal D.P.R. 81/2009».

Fu anche obiettato che il fenomeno delle classi con più di 25 alunni era comunque limitato e che i tetti fissati tenevano conto della capienza effettiva delle aule.

Restando nel contesto della class action si può affermare che in esso si inquadra anche la recente diffida rivolta ai Dirigenti scolastici – per il tramite di legali – da alcune associazioni e gruppi contro l’applicazione del decreto che obbliga operatori scolastici, insegnanti, personale ATA e amministrativi ad esibire il Green pass (o tampone), pena l’erogazione di sanzioni amministrative da 400 a 1.000 euro e la sospensione dal servizio dopo il quinto giorno.

Nelle intenzioni dei diffidanti si tratta di far prendere coscienza ai Dirigenti scolastici dell’illegittimità del decreto-legge in questione rispetto alle norme costituzionali, invitandoli implicitamente a disapplicare essi stessi il Green pass.

Diffamazione, minacce e mobbing

Per riprendere il discorso principale richiamando le tematiche già accennate in premessa, si ribadisce che – in ogni caso – la diffida può non avere come oggetto esclusivamente una questione debitoria e/o di mancato rispetto di un impegno assunto: esistono anche altre situazioni in relazione alle quali essa assume il ruolo di avvertimento e di invito.

Parliamo dell’intimazione a non mettere in atto (o a cessare) un determinato comportamento, come accade attraverso la diffida per diffamazione o la diffida per minacce: si tratta di un tentativo di porre fine ad una situazione dannosa senza che il responsabile del fatto contestato sia soggetto a un giudizio con possibili conseguenze su piano penale e civile (condanna e risarcimento del danno).

Il caso più emblematico di questo tipo di diffida riguarda il mobbing, che può essere o meno integrato da condotte penalmente rilevanti.

In questo frangente, al Dirigente scolastico (ricordiamo, in in qualità di datore di lavoro) può giungere, da parte di un docente, una lettera di diffida che contiene la comunicazione delle vessazioni subite da altri nel corso della sua attività lavorativa e dei danni psicofisici che ha subito.

Cosa deve fare il Dirigente scolastico

Nel caso prospettato di diffida per mobbing, anche se non vengono comunicate condotte penalmente rilevanti, il Dirigente scolastico deve comunque procedere ad accertamenti e porre in atto azioni finalizzate a modificare positivamente la situazione, rammentando che, qualora la situazione rimanesse invariata, la controparte potrebbe presentare denuncia presso uno degli sportelli presenti sul territorio (spesso coincidenti con organizzazioni sindacali).

È infatti soggetto a responsabilità anche l’atteggiamento d’indifferenza del datore di lavoro rispetto a fenomeni di mobbing orizzontale, così denominato per differenziarlo dal mobbing verticale (detto anche bossing) che si verifica quando l’attività lesiva è perpetrata dal datore di lavoro.

E dopo la diffida?

A fronte di una qualsiasi diffida ricevuta che riguardi un problema che mette in gioco la responsabilità personale (nel nostro caso del Dirigente scolastico) si deve innanzitutto tenere presente che, in ogni caso, la questione non avrà necessariamente un’evoluzione che sfoci in un processo (il quale può comportare, tra l’altro, tempi lunghi e costi elevati).

Inoltre, bisogna tener presente che la descrizione dei fatti nella missiva – pur tendendo, nelle intenzioni dell’estensore, alla massima chiarezza e oggettività – esprime comunque la ricostruzione della vicenda dal punto di vista di una delle parti, consentendo comunque alla controparte di opporre una diversa interpretazione.

La ricezione di una lettera di diffida lascia al ricevente la decisione se rispondere o meno in quanto, secondo la legge, in molti casi non sono previste conseguenze in assenza di riscontro.

Esistono pareri differenti in merito alla migliore tra le due scelte possibili.

Alcuni ritengono sia meglio non fornire alcuna risposta, anche per non mettere a disposizione del “diffidante” ulteriori elementi che potrebbero essere utilizzati in un eventuale procedimento giudiziario.

Personalmente ritengo invece che astenersi dal farlo, pur non costituendo un’implicita ammissione di colpa, si configuri comunque come rinuncia a un diritto.

È preferibile, quindi, dare un riscontro, anche e semplicemente attraverso una dichiarazione generica come la seguente, rintracciabile in molti siti che forniscono suggerimenti legali: “Contesto integralmente quanto mi si chiede perché destituito di fondamento in fatto e in diritto”.

È appena il caso di sottolineare che la risposta (analogamente a quanto prescritto per la diffida stessa) deve essere veicolata attraverso un indirizzo di posta elettronica certificata, il cui valore legale è pari alla vecchia raccomandata postale.

I termini della diffida

Un altro aspetto importante da tenere in considerazione è che la diffida, pur rappresentando una comunicazione ufficiale, non produce un effetto automatico allo scadere del tempo che è stato eventualmente assegnato al destinatario per svolgere o non svolgere un’azione.

Quest’ultima affermazione non vale solo nei casi sopra citati di diffida ad adempiere: nell’ambito di un contratto tra due soggetti di cui uno non abbia svolto la propria prestazione, la diffida stabilisce il tempo massimo di 15 giorni per adempiere all’impegno assunto ed evitare la decadenza del contratto, mentre nel caso di mancato compimento dell’atto richiesto senza aver prodotto giustificazioni scritte sussiste reato qualora sia decorso il termine di 30 giorni.

È evidente che (anche se non tassativamente prevista) l’indicazione di un termine entro cui adempiere, unita all’avvertimento che in difetto si ricorrerà al giudice, fa aumentare l’efficacia dell’atto in termini di percezione del messaggio da parte del destinatario.

In ogni caso, dal tenore della comunicazione si possono dedurre eventuali richieste al giudice nell’ipotesi di fallimento della richiesta anche se – tranne in alcune situazioni particolari – non necessariamente la diffida rappresenta il primo passo verso il tribunale.

Infatti, essa è il prodotto di una spontanea iniziativa di un soggetto non strettamente collegata ad alcun processo: il suo carattere giuridico è infatti sempre definito “stragiudiziale”.

Di più: lo scopo della diffida dovrebbe essere quello di evitare l’instaurazione di un procedimento e di trovare una definizione amichevole di una lite pendente, sollecitando il destinatario a compiere o non compiere una determinata azione e concedendogli “un’ultima possibilità” prima di valutare l’avvio di una causa o la richiesta di un decreto ingiuntivo.

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